il nuovo romanzo:
Questo viaggio chiamavamo amore

in libreria dal 10 febbraio 2015

Questo viaggio chiamavamo amore

 

«Cosa resta a fare un giovane in questa Europa decrepita? Meglio l’America col suo azzardo dell’ignoto: quando piove, chi non ha casa se la trova...»

 


Un intensissimo romanzo su Dino Campana, negli anni di reclusione nel cronicario di Castel Pulci. Al centro la follia, il genio, il viaggio (mai provato) del poeta in Argentina. Un libro in cui il ricordo diventa visione, racconto reale o fantastico di un mondo piú vero del vero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL BOOKTRAILER

 

 

 

RISVOLTO DI COPERTINA

 

È il 1907 quando Dino Campana fugge da Marradi alla volta di Montevideo e poi dell’Argentina. Dato che di quel viaggio non esistono fonti certe, Laura Pariani ipotizza un percorso che dalle rive del Paraná lo porta ai bordelli di Rosario fino ai cantieri ferroviari di Bahía Blanca.

Come succederà mezzo secolo dopo al giovanissimo Che Guevara partito a conquistare il mondo su una motocicletta, per il ventenne Dino il vagabondaggio attraverso il Sudamerica – a piedi o su mezzi di fortuna – sarà un’occasione per conoscersi e sentire «con delizia l’uomo nuovo nascere».

Una ventina d’anni dopo, durante la reclusione a Castel Pulci – tra le angherie dell’infermiere Calibàn, i pasti insipidi e le notti insonni – le domande dello psichiatra Carlo Pariani innescano nel poeta vivide memorie, lettere o telefonate mentali a compagni di viaggio, resoconti di ubriacature e feste selvagge nella pampa, in mezzo a una «natura ineffabilmente dolce e terribile».

Con una scrittura densa di atmosfere sudamericane, mescolando echi dei Canti Orfici con la lingua degli emigranti italiani, Laura Pariani tratteggia il contrasto tra la fiammeggiante vitalità di quella fuga giovanile e l’oscurità dell’ultima tappa del viaggio terreno di Campana.

 


la prima pagina

 

    UNO

L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente

Messaggio per l’aldilà

 

 

Caro Regolo,
non prendertela se non ti ho più scritto. Dall’ultima volta che ci siamo visti son successe così tante cose, che mi ci vorrebbe troppa fatica e almeno un centinaio di fogli anche solo per contarti la meccanica di superficie degli avvenimenti suddetti - e nella villa di Castel Pulci, in cui soggiorno forzatamente, a noi reclusi centellinano la carta, manco fosse oro zecchino.

Vedi, oggi pomeriggio stavo qui nel “salone giallo”, come lo chiamano gli inservienti - in realtà si tratta dello stanzone in cui ci riuniscono, noi degenerati, perennemente in penombra anche nella bella stagione; chi lo sa, forse nei tempòribus sfoggiò un’elegante tinta dorata, ora è di un moscio color «merdarella di malato», slavato scagazzo tipico della magra dieta che l’istituzione benevolmente ci elargisce... Insomma, com’è come non è, inizia a girarmi attorno un moscone nero, zzz... zzz, insistente sopra la testa, zzz, come voce lontana in torbido affanno.

Subito, in un vivamarìa, ecco tutti i ricoverati a strillare:
«Chiàppalo! Càttalo! Prendilo! No, lascialo a me ché l’è mio!». Uno si sbracciava, un altro dava zompi per afferrarlo, un terzo mugolava per l’eccitazione... Ma il giocar di mani dispiace fino ai cani, sicché i sorveglianti, che non sopportano il minimo gesto fuoriposto, si metton subito in agitazione con un paio di stracci per scacciarlo via o, peggio, per ammazzarlo.

A quel punto non mi restava che mettermi a salto e gridare: «Fermi tutti! Che nessuno tocchi sta bestia...


 

 

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