La Stampa, Tuttolibri, 28 febbraio 2015
Laura Pariani in Argentina con il poeta
La folle giovinezza di Campana nella Pampa
Tra bettole e bordelli, inanellando bislacchi mestieri, un'avventura di libertà per l'autore dei Canti orfici
di Lorenzo Mondo
Laura Pariani ama intrattenersi nei suoi romanzi con figure di scrittori celebri, indagare nelle loro zone d’ombra, inventare percorsi esistenziali e intellettuali che, al di là di una possibile verosimiglianza, gettano luce sulla loro personalità. Lo ha fatto con Nietzsche e Dostoevskij, e adesso si misura con un soggetto che si presta allo scopo in modo superlativo: il poeta Dino Campana, protagonista del romanzo Questo viaggio chiamavamo amore. A stimolarla, non è l’alienazione mentale di Dino, dove si fanno varco rivoli di poesia, ma la sua fuga, rimasta a lungo controversa, da Marradi al Sudamerica. Prove inoppugnabili hanno ormai dimostrato che quel viaggio, così presente nei Canti orfici, fu compiuto davvero, non fu frutto di allucinazioni e fantasticherie. Possiamo lasciarci trascinare, fiduciosi, dall’incipit famoso di «Viaggio a Montevideo»: «Io vidi dal ponte della nave/I colli di Spagna/Svanire, nel verde/ Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando/Come una melodia».
Laura Pariani ambienta la vicenda nel manicomio di Castelpulci, una ventina d’anni dopo la fuga di Campana, iniziata nel 1907, seguendolo fino alla morte, avvenuta nel 1932. E’ vittima di innumerevoli costrizioni, dall’elettroshock alle soperchierie dell’infermiere Calibàn, alle assillanti interrogazioni dello psichiatra Carlo Pariani. Con quest’ultimo Dino gioca a rimpiattino, vede in lui un nemico, assimilandolo alla genia dei Critici che lo hanno per troppo tempo trascurato (Soffici e Papini hanno perfino smarrito il primo manoscritto delle poesie ad essi confidato). Si rinserra nelle sue memorie e visioni, si svela appena nelle bizzarre «lettere mentali» inviate a Freud, al Sade manicomiale, a Edison... Certo Carlo Pariani, teso a verificare in lui le analogie tra genio e follia, non mostra la stessa avvertenza e sensibilità dell’omonima scrittrice di cui ci occupiamo. Laura racconta, nell’eco dei parchi, criptici suggerimenti di Campana, le tappe di quel viaggio dall’Uruguay all’Argentina, compiuto a piedi o con mezzi occasionali, in uno sfrenato desiderio di libertà. Si sofferma sui suoi innumerevoli mestieri: il «bicicletero» (che illustra agli acquirenti l’uso del nuovissimo velocipede), l’inserviente allo zoo, lo sterratore per i binari della ferrovia, il fuochista sui treni ruggenti. Frequenta bettole e bordelli, feste e bivacchi sotto le stelle in compagnia di gauchos ed emigrati, si incanta davanti agli spazi sconfinati della Pampa. Attraversò per la prima volta l’Argentina a cavallo quando lesse, da bambino, I figli del capitano Grant. Ma ora insegue, insieme al sogno di un amore pulito, quello dell’uomo nuovo che rifiuta come Rimbaud i «vieux parapets» dell’Europa, nel fascino di una terra primigenia e incontaminata.
Laura Pariani compone pagine smaglianti, stilisticamente elaborate, alle quali sembra predisposta dalle frequentazioni dell’Argentina, sua patria del cuore. Non mancano le sottili insinuazioni sugli antesignani del suo personaggio. Quando Campana, in un momento di resipiscenza, afferma di capire perché Rimbaud rinunciò a scrivere: «Si voltano le spalle alla pagina perché il mondo intorno a noi non si lascia spiegare». Cita, e prolunga, Baudelaire quando racconta di avere soccorso un albatro ferito, aiutandolo a riprendere il volo. Come volle fare lui stesso, fuggendo la gretta Marradi, la madre tirannica, le persecuzioni dei poliziotti, la boria degli accademici: «...se la natura ha dato le ali a certi esseri perché si salvassero dagli attacchi delle specie più forti, ci sarà bene una ragione. E io nel mio animo ho sviluppato le ali del sogno per diventare leggero e sfuggire a chi mi faceva del male». Quale che sia l’aderenza al vero Campana, l’America si configura come una grandiosa metafora di una giovinezza non ancora delusa e travolta dal male di vivere e dalla follia, come incunabolo privilegiato di una salvifica poesia.
La Gazzetta di Parma, 1 marzo 2015
Campana «il matto» riletto dalla Pariani
Una suggestiva ricostruzione della personalità dell’autore dei «Canti Orfici»
di Rita Guidi
Trasuda di questo dolore così vicino alla rabbia, il mondo di Dino Campana – ingabbiato nel manicomio di Castel Pulci – e restituito da Laura Pariani in «Questo viaggio chiamavamo amore» (Einaudi, 189 pag.).
La scrittrice e studiosa (fresca del Premio Carlo Levi) dedica infatti una suggestiva ricostruzione della torbida ed emozionante personalità dell’autore dei «Canti Orfici», scavando e immaginando, in questa sorta di diario, tra i giorni arroventati della dannazione.
Un viaggio. Dal tempo immobile della contenzione, allo spazio dilatato del ricordo e del nuovo mondo: ricostruzione di una memoria, pretesa e intesa come guarigione nelle periodiche e puntuali sedute dallo psichiatra che lo aveva in cura.
Una parete e una sedia, lo sguardo di Campana è muto come le sue labbra, ma la mente vola: una mosca diventa l’amico Regolo, figlio del Po, che mantiene un’antica promessa («Quando per me verrà l’ora (…) io rinasco (…) moscone nero (…) Eccosì, verrò a trovarti, ma mi raccomando non mi ammazzare quando mi vedrai»); o il vento conduce ai sentieri selvaggi della pampa, affollata di bellezza e libertà.
Da Marradi a Montevideo all’Argentina, la Pariani ricuce un tempo velato dal silenzio e dal dubbio, lo attraversa con i suoni dei Canti, ne ipotizza figure, amori, avventure. Dal viaggio in nave, tra gli umori dei migranti e l’immediata amicizia con Ippolito, atteso dal fratello Gottardo a Montevideo (prima àncora d’oltreo - ceano per il nostro), all’incanto biondo di una ragazzina da seguire con una carovana attraverso l’infinito orizzonte del Sud America. Perché c’è anche l’amore sognato e vivo in queste pagine. E l’irresistibile forza di occhi che sanno guardare altrove, oltre l’ovvietà senza stupore che appanna la ‘normalità’ della vita (esilaranti e geniali le lettere al Direttore de «La Fiera Letteraria» o a quello dell’Istituto Nazionale di Statistica).
«In che consisteva la mia stranezza? – scrive e ricorda Campana nelle parole della Pariani – Nella convinzione che della cosiddetta realtà non posso saper altro che il mio modo di percepirla (…) Ho sempre avuto il senso del raro e dell’effimero. E se la parola stupido viene da ‘stupor’, io sono il massimo concentrato di stupidità». Un condannato: dalla banalità del mondo.
Laura Pariani rende omaggio a Dino Campana, poeta sconfitto
di Fulvio Panzeri
Era inevitabile per una scrittrice come Laura Pariani l'incontro narrativo con Dino Campana, visto che nei suoi romanzi spesso capita di incontrare grandi nomi della letteratura, come nel recente (uscito l'anno scorso e firmato con Nicola Fantini) Nostra signora degli scorpioni, in cui entrava in scena, nello scenario di uno dei suoi "luoghi dell'anima", il lago d'Orta, anche Dostoevskij.
L'autore dei Canti Orfici diventa un personaggio perfetto in quel mondo dei "vinti" che cercano una loro verità, sofferta e derelitta, ma assolutamente forte e dignitosa dal punto di vista umano che la scrittrice va descrivendo, in un variegato percorso spazio-temporale e attraverso una lingua aspra e impastata dal punto di vista linguistico dalle parlate riportate in una esemplare elaborazione inventiva, fin dai suoi esordi narrativi. Così anche la struttura di questo suo nuovo romanzo sceglie di non aderire ad una scansione tradizionale, ma di raccontare attraverso una memoria immaginifica che affiora attraverso barlumi, rabbie, senso di esclusione, felicità improvvise, vagabondaggi e improvvise esplorazioni di un mistero che la terra sembra voler far presagire di colpo, per poi far ritornare all'ordinarietà di una vita spezzata tra genio e malattia.
Dal Regio Manicomio di Castel Pulci, attraverso lettere, chiacchierate, racconti dei suoi incontri con lo psichiatra Carlo Pariani, che non riesce a scalfire la corazza che il poeta si è costruito intorno a sé, soprattutto quando gli chiede conto di particolari o accenna al le sue poesie, in colloqui che procedono a salti, emerge la figura di un uomo che si nasconde all'ostilità di un mondo e che dice: «Lei esiste, dottore. Lei è vivo. Io no. La mia unica forza è che non sono più vivo... Per mia fortuna, non è poi così difficile essere morti».
E riemergono continuamente, come istanti di grandi felicità, i ricordi del viaggio in America del Sud, altro "luogo dell'anima", continuamente indagato dalla Pariani che qui è visto attraverso lo sguardo e le istantanee di un Dino Campana che si trova finalmente libero e vivo, perché solo quando usciva dalla ristrettezza del suo paese, secondo la scrittrice, si sentiva leggero e con il cuore puro, tanto che nel romanzo fa dire al poeta: «Marradi non era la patria, ma piuttosto l'esilio della vita vera. Benedetto l'anno 1907 quando mi imbarcai per l'America: mi piace ripetermi adesso quella data, come se fosse un oggetto prezioso e fragile, tutto mio». Così la Pariani racconta in una prospettiva immaginifica, quasi come in frammenti di sogno, un viaggio segnato dal vagabondaggio, da Montevideo alle rive del Paranà fino ai cantieri ferroviari di Bahia Blanca, ma anche da un senso di apertura e di rinascita. Riapre in qualche modo la riflessione sul caso Campana, a partire da questo "gran buco nero" dell'attraversamento dell'Oceano insieme agli emigranti, che molte biografie hanno sottolineato, ma di cui restano tracce, riportate in prosa nelle sue poesie. Sono quelle che la Pariani chiama «visioni di un Sudamerica so- gnato/immaginato/ sentito raccontare - vissuto? - con un desiderio di febbrile libertà».
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Il Corriere della Sera, La lettura, 15 marzo 2015
I due viaggi di Dino Campana: in Sud America e dentro la sua anima
Laura Pariani torna a raccontare in chiave romanzata la vita di un protagonista reale, seguendo il poeta di Marradi tra avventure e fragilità
di Ermanno Paccagnini
Sono sempre «incursioni dietro le linee per catturare la vita» quelle di Laura Pariani. Specie se si tratta di autori. Era accaduto con Garcilaso de la Vega «El Inca» in La spada e la luna (1995); con Nietzsche in La foto d’Orta (2001); con Witold Gombrowicz in La straduzione (2004), e con Dostoevskij sempre a Orta in Nostra Signora degli scorpioni (2014).
In Questo viaggio chiamavamo amore tocca a Dino Campana, rivisitato nel buco nero del 1907 della fuga come «matto» da Marradi e famiglia per imbarcarsi per Montevideo: viaggio di «al massimo sei mesi, traversate incluse» (ricorda Vassalli), di cui restano suggestioni poetiche in Viaggio a Montevideo. In tal senso il romanzo non solo si offre a dittico con La straduzione, dandosi entrambi i protagonisti, oltre che affetti da una sia pur differente forma di «pazzia» (così si qualifica Gombrowicz), come fuggiaschi in quell’Argentina luogo privilegiato di molti romanzi della Pariani; ma, considerando la ricordata alternanza dei luoghi d’ambientazione, suggerisce pure certa specularità sia con le «fughe» dell’autrice che ha scelto di dividersi tra Orta e Argentina, sia d’un rileggersi scrittoriamente attraverso quelle figure, sia pur più lievemente e sotterraneamente rispetto a La straduzione, rapportando il tutto alla intimità dei sentimenti di libertà, solitudine e sul senso stesso dello scrivere.
Quanto al romanzo, strutturalmente è suddiviso tra il piano del presente (dal novembre 1926 all’aprile 1930, con postilla nel 1932 della morte), quando al Regio Manicomio di Castel Pulci il «Màt Campèna» viene «tormentato da un certo dottor Pariani che tramite suggestione vuole trasformarmi in un uomo diverso», per darne poi conto nel discusso volume Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore; e il piano del lontano viaggio del 1907 verso lo «spazio grande» e libero dell'America quale rifugio alla «propria fragilità» e vulnerabilità della «propria anima». Un viaggio che ora, chiuso tra i «muri grigi e muffosi» del cronicario, gli si dà quale luogo ideale per la libertà della mente, scappando «fuori da qui, col ricordo di viaggi lontani»: rivivendo però con l’avventura di vent’anni prima, pure l’abisso che «è dentro di me, proprio qui in mezzo alla mia mente». Ed è un viaggio dalle forme tutte mentali (si tratti di «lettera», «visione», «taccuino», la stessa sillabazione dei versi di Baudelaire o Rimbaud), nel segno di una immaginazione al tempo stesso dolorosa e liberatoria, visionaria e introspettiva, propria di chi viene «intingendo la dritta penna del mio affetto nel mio negrissimo inchiostro interiore».
Una visionarietà ricca di incontri «magici», soprattutto femminili, che l’autrice dona al poeta nel corso del suo viaggio da Montevideo a Rosario, a piedi o con mezzi occasionali, mantenendosi con lavori provvisori quali il bicicletero, guardiano di zoo, sterratore o fuochista per le ferrovie, tra emigrati, gauchos, schiave, prostitute e nobildonne, che Campana fa rivivere in forma di lettera (ben undici, ai personaggi più diversi: da un ragazzo emigrante a De Sade, Edison, ma pure «a Noi»), di conversazioni, messaggi telepatici, telefonate (a Freud), suggestioni radiotelefoniche. Di qui la pluralità di registri narrativi: tra un Campana ora mentalmente epistolografo; ora mentalmente postillatore tra insof ferenza, derisione e «volontà di contar balle» degli incontri col credulone «avversario» Pariani; ora offerto con prospettiva interna in terza persona, con passaggi più narrativi sui rapporti col personale, in specie con la «stupida gradigia di quel tal Calibàn» infermiere. Momenti nei quali Laura Pariani gioca anche su differenti registri linguistici, oltre che su screziature che svariano dal parlato alla citazione, alle diverse lingue ; colte o da emigrante.
Perché, se nelle lettere è l’autrice a regalare a Campana il proprio mondo visionario del Sudamerica, nel ripiegarsi di Campana su di sé, sulla propria solitudine, sulle interrogazioni a proposito della scrittura, sulla «nostra brama di assoluto», sul rapporto scrittura-mondo, è invece il poeta a suggerire momenti di riflessione. Senza che con tutto ciò sia fatta violenza alla poesia, all’umanità e alla storia stessa del poeta; di cui sono richiamati con leggerezza di tocco anche vari momenti biografici, pure quelli sgradevolmente leggendari.
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