con Nicola Fantini:
Arrivederci, signor Čajkovskij

in libreria dal 6 giugno 2019

Questo viaggio chiamavamo amore

 

 


Sellerio, La Memoria 1138, pp. 405.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

RISVOLTO DI COPERTINA

 

Orta Novarese, dicembre 1878. In uno dei suoi primi soggiorni italiani Pëtr Il’ič Čajkovskij risiede sul lago Cusio, cercando ispirazione e sollievo per la propria inquietudine. Sull’isola di San Giulio, a poche bracciate dalla riva, soggiorna la ricchissima vedova Nadežda Filaretovna von Meck, mecenate innamorata del compositore con cui ha stretto un singolare contratto: i due non devono frequentarsi né vedersi, ma pur vivendo in case separate si impegnano a scambiarsi ogni giorno lunghe lettere. E questo insolito legame, per gli abitanti del paese è principio di dicerie, forma di mistero.

E non è l’unico. L’atmosfera brumosa del lago e il basso continuo delle vite modeste dei suoi abitanti sono sconvolti da un delitto e dall’inspiegabile segregazione di cinque inglesine in una villa dell’isola. Tutti vengono coinvolti: dal medico al vecchissimo banditore, dalle due gemelle canterine alla Marchesa Colombi, dalla veggente al fotografo. Sarà forse l’effetto delle cinque Notti Nere del solstizio d’inverno che – come spiega al compositore russo l’affittacamere colta e emancipata – segnano il momento magico in cui vivi e nonpiù-vivi comunicano. Perfino Čajkovskij ne è toccato: perché gli è stato insegnato che ogni donna uccisa vicino all’acqua si trasforma in una rusalka famelica di sangue maschile.

Una storia corale che racconta non solo chi vive nel paesino piemontese, ma anche gli abitatori delle Tenebre-di-mezzo, che ogni notte scendono dal cimitero di San Quirico a indagare con curiosità ciò che succede dietro i muri delle vecchie case.

Così Arrivederci, signor Čajkovskij si colloca come seguito ideale al precedente romanzo di Fantini e Pariani, Nostra Signora degli scorpioni: saga di un «piccolo mondo antico» del novarese.

 

INCIPIT

 

 

Quelli delle Tenebre-di-mezzo

 

Il cimitero di San Quirico domina il paesino di Orta Novarese e gode di un’ampia vista sul lago Cusio. I turisti che ci capitano nel fine settimana lo definiscono un posto pittoresco anche se «faticoso» a causa delle ripide stradine a ciottoli. Noi che a Orta siamo vissuti, a tali scomodità non abbiamo mai badato né ci è mai passato per la testa di andare a vivere altrove per evitarle; e, se qualcuno ha dovuto per forza maggiore allontanarsi dal Cusio, l’ha fatto malvolentieri. Chi nasce sulla riva di questo lago non si sente a suo agio lontano da qui; e prima o poi fa in modo di tornare, anche da non-più-vivo: perché fuori da questa valle si sentirebbe perso e perché ha la certezza di essere aspettato se non dagli esseri umani, perlomeno da noi delle Tenebre-di-mezzo.

Naturalmente i turisti – soprattutto certi busecconi di Milano, abituati a vivere in alti palazzi su strade chiassose – potrebbero storcere il naso se capitassero a Orta in un pomeriggio feriale d’inverno, tra il lusco e il brusco, quando un silenzio più antico del tempo riempie vicoli e cortiletti. Le poche volte che è successo, ci è toccato ascoltare i loro commenti perplessi sulla mancanza di negozi aperti e di luminarie: «In questo paese vivono come nel passato», oppure «Ma non si annoiano?».

Annoiarci noi? Ci fanno proprio ridere! Quello che i turisti conoscono del mondo è niente, assolutamente niente, a confronto di ciò che accade a Orta. Forse, se qualcuno di loro sul far della notte facesse un giro per certi stradelli che salgono verso il cimitero di San Quirico, avrebbe un soprassalto e magari sguignerebbe di paura al sentire il brusio del nostro parlottare da una tomba all’altra: i fantasmi dei soldatini magri, partiti in guerra col sacco in spalla e riportati a Orta dentro una bara, amoreggiano con le fiòle che finirono sottoterra per mal d’amore; gli spiriti dei vecchi pescatori contano le avventure col più grosso luccio della Bagnera; i bambini morti in culla bisbigliano tra loro cantilene sulla svàjna e la spersùria... Essì, qui si dorme mica: passiamo la notte chiacchierando, ché noi non-più-vivi abbiamo tutto il tempo che vogliamo, in vita non ne abbiamo mai avuto così tanto, neh. E se facciamo un giretto giù in paese, nessuno ci fa caso: gli ortesi alla nostra presenza sono abituati e non batton ciglio. Presèmpio, una di noi – la Ninetta Lengua-longa morta nel 1746 – si mise un pomeriggio del mese scorso a sedere sulla scala del Palazzotto a scaldarsi gli ossicini privi di carne, mentre i bambini, senza fare una piega, giocavano lì accanto con i monopattini, quasi che lei fosse stata una delle loro nonne. Credeteci, non c’è posto migliore di Orta per noi non-più-vivi.

Del resto non c’è mica così tanta differenza tra morti e viventi: siam fatti uguali, al massimo loro, i vivi, son più pesanti. In fin dei salmi che cos’è la vita? Una garza sottilissima che un bùff di vento può sghirare.

Chiaro che non tutti i trapassati di Orta abitano qui al cimitero di San Quirico. Alcuni, pochini in verità, appena seppelliti volano via verso il cielo dei santi; e, per contrasto, son parecchi gli scungiurâ che, trascinando le proprie catene, se ne vanno a scontare le sò colpe nello sprofondo della grotta dell’Orchéra, le cui pareti trasudano gocce gelate che si spiaccicano al suolo con un tonfo sordo... Solo noi che siamo né troppo buoni né troppo barabba aspettiamo la tromba del Giudizio qui sulla collina, nelle Tenebre-di-mezzo, a smemorarci raccontando a baobabào.

Pure dobbiamo ammettere che quanto stiamo per narrare è stato memorabile anche per quest’angolo di mondo, dove all’insolito – draghi compresi – ci abbiam fatto il callo.

Dunque tutto iniziò di mercoledì, nel dicembre del 1878. Una strana stagione di vento tagliente e freddo barbino, ma senza neve. Cominciò con una lettera...


 

Recensioni