La Repubblica, Robinson, 17 agosto 2019
I fantasmi di Čajkovskij
di Filippo La porta
La nostra letteratura non è affatto la più brutta del mondo, come si ostina a ripetere un senso comune conformisticamente snob. Ogni anno escono tre o quattro libri importanti. Però certamente difetta di immaginazione (ovviamente mi riferisco alla letteratura “colta” e non a quella di genere). È tutta sigillata nel memoir d’autore, nell’autofiction intelligente, nel pensoso diario in pubblico (a puntate), ci racconta fino all’ossessione ciò che l’autore vive quotidianamente: stradoni, periferie di metropoli, lavori precari, infedeltà ordinarie, perversioni sessuali, equivoci da sms... (perfino quando si avventura nel passato i personaggi parlano la nostra stessa lingua!). Tutto questo è suprema garanzia di autenticità, ma alla letteratura non chiediamo anzitutto di essere “autentica”: ha da sempre anche la funzione di farci evadere dal nostro mondo - di cui a volte non ne possiamo più! -, di trasportarci verso mondi altri (non migliori o peggiori ma almeno con altre abitudini e altre contraddizioni).
Arrivederci, signor Čajkovskii di Nicola Fantini e Laura Pariani (Sellerio) ha sùbito una mossa narrativamente spiazzante: la storia, ambientata alla fine dell’800 nel novarese, ci viene raccontata dagli spettri del cimitero del paese, i “noi-delle Tenebre-di-mezzo”, i non-più-vivi che da San Quirico scendono nelle strade di Orta Novarese - quando sta per morire qualcuno - attraversandola in processione (antica credenza di quelle valli), e impicciandosi delle esistenze di quanti ci abitano. Anche perché non differiscono di molto dai viventi: “al massimo loro, i vivi, son più pesanti”. Nel novembre del 1878 Pëtr Il’ič Čajkovskij - che da bambino voleva essere italiano! - soggiorna per qualche mese a Orta, in un bell’appartamento spazioso pagato dalla adorante mecenate Nadezda Filaretovna. La relazione tra i due ci permette di gettare uno sguardo sulla inesauribile bizzarria dell’umano: il loro patto prevede infatti che si scrivano anche due volte al giorno ma che non si incontrino mai, pur abitando a poca distanza. Il romanzo, punteggiato dai commenti dei non-più vivi (quasi il coro della tragedia greca, solo più pettegolo) si allarga a descrivere la variegata popolazione del paese, con un tale intrico di personaggi e di vicende da richiedere uno specchietto iniziale (spicca fra tutti Maria Antonietta Torriani, giornalista milanese bella e anticonformista...), e ci fa entrare nelle cucine, tra verze e patate. La lingua imita il parlato (“presempio”), riproducendo con filologica precisione modi e inflessioni dialettali quando sono in scena personaggi umili - un po’ Albero degli zoccoli - e si orienta su cadenze ottocentesche, su una prosa educatissima, lenta, e di ammirevole trasparenza (“‘l’aria era di un pallido azzurro, punteggiata dal cinguettio di decine di passeri”: a tratti sembra di leggere un racconto di Cechov magnificamente tradotto!). La vicenda a un certo punto precipita su un delitto (l’uccisione di una donna), che rivela il cuore buio di una cittadina pacifica e solo apparentemente ordinata (una Twin Peaks ottocentesca). Nel finale il musicista russo enuncia la morale della storia, come in conclusione di una commedia a teatro (poco prima si era svolta la recita del cantastorie): “La vita è fatta di strani incontri e di attimi di felicità, perfino in un paesino sperduto in cui si parla una lingua ben diversa da quella dei libri rilegati”. Il romanzo di Fantini-Pariani celebra una malinconica epica dell’esistenza con uno stile solo apparentemente antiquato, percorso dalle segrete correnti che agitano il lago in profondità.
Pensiamo ad altre letterature, ad esempio quella latino-americana (da García Márquez a Bolaño), o quella araba contemporanea o al mosaico del romanzo postcoloniale (da Rushdie in poi). Di esito disuguale, però risultano piene di sconfinata immaginazione anche perché direttamente a contatto con un retroterra culturale fatto di racconti mitici, fiabe, leggende. Fantini e Pariani hanno tentato di fondere il romanzo di ambientazione storica con un elemento fiabesco che attinge allo storytelling contadino-arcaico del novarese. E lo hanno fatto con ammirevole “naturalezza”, senza decorativismi kitsch. Al lettore è solo richiesto uno sforzo supplementare per abitare un mondo da una parte così familiare (nelle sue eterne passioni) e dall’altra anche così straniato, brumoso e spettrale, così distante - vivaddio! - dal nostro.
Il Corriere della Sera, La Lettura, 25 agosto 2019
Čajkovskij è in un lago di storie
Nicola Fantini e Laura Pariani creano una polifonia e una trama gialla partendo da un dato storico
di Ermanno Paccagnini
Dopo il Dostoevskij di Nostra Signora degli scorpioni, con Arrivederci, signor Čajkovskij è al compositore russo che Nicola Fantini e Laura Pariani offrono l'occasione di trascorrere alcuni giorni a Orta Novarese.
Tutto avviene tra il 18 e 23 dicembre 1878, con un Čajkovskij che vi giunge nel corso del viaggio in Italia organizzatogli dalla ricchissima vedova Nadežda Filaretovna von Meck, il «mio amico» della dedica della Sinfonia numero 4 in fa minore del 1877: ospite, la donna, gli undici figli e «una tribù di servitori da non credere», sull'isola di San Giulio, mentre il compositore e il giovane cameriere Alioša sono ospitati da Abigaille Agnoni, nella stessa casa nella quale 9 anni prima aveva soggiornato Fëdor Dostoevskij.
È così che il lettore ha occasione di reincontrare personaggi quali il medico Olindo Mascheroni detto «Strión», la moglie Gilda, con fama di medium, la Fantesca Teresa coi gemelli Ric e Roc e le figliastre Génia e Cenza. Due personaggi strani per i paesani, Čajkovskij e Nadežda: ai loro occhi amanti che «si erano promessi amicizia eterna e cura reciproca con la rigida condizione che non si sarebbero mai trovati vis-à-vis» e che si scambiavano anche più lettere al giorno: un rapporto insieme di affetto e mecenatismo qui ricostruito con finezza. Ma il romanzo è ovviamente assai di più: quel di più che dà occasione anche di inserire un fatto di cronaca criminoso, un omicidio del quale si vede incolpato, per il suo carattere libertino e irreligioso, ma pure per una sorta di eredità biologica malavitosa, Iginio «Tremacùa» Ballotti, il cui nonno era stato al centro di un lontano delitto sul quale si era trovato a far luce proprio Dostoevskij nel precedente romanzo. Un omicidio, quello del 1878, vittima Marianna, cugina di Abigaille, risolto invece grazie alla curiosità di Génia e Cenza, due ragazzine che si esprimono unicamente in versi rimati, oltre che alla perizia scientifica di Olindo e alla sensitività della moglie Gilda.
La componente gialla non è però fine a sé stessa, al pari della vicenda di mademoiselle Solange, istitutrice francese sulla quale aleggia il sospetto di avvelenamento di arsenico dei cinque bambini inglesi affidatile: rientrando esse nel tema centrale del romanzo che, attraverso figure femminili delineate ciascuna con una propria precisa caratteristica, rivive la condizione femminile dell'epoca sia nella rappresentazione di una quotidianità spesso al limite della sopravvivenza sia nelle sue prime espressioni critiche verso la famiglia patriarcale e i matrimoni combinati, incarnate da una Abigaille che ha scelto di non sposarsi o dalla Marchesa Colombi, donna «pienamente soddisfatta sia della propria condizione di donna separata sia della professione giornalistica».
Al fianco stanno però i risvolti di amori infelici e anche tragici: come nel caso di Marianna, cugina di Abigaille e amica della Marchesa Colombi, riparata a Orta coi due bambini per fuggire dall'autoritario e libertino marito; della fantesca Liséa, innamorata abbandonata; di Claretta, disposta a tutto pur di sottrarsi a un ambiente di fame; per giungfere a un disamore che giunge sino alla follia omicida perpetrata anche su degli innocenti come vendetta.
Non vanno dimenticati i due altri protagonisti, e segnatamente Čajkovskij, fresco reduce dalla «travagliata conclusione del suo matrimonio» con Antonina Ivanovna proprio a causa della sua omosessualità. Un Čajkovskij che proprio per questo «fin da ragazzo aveva imparato a nascondere i propri sentimenti in una nebbia di indeterminatezza», riversando nelle proprie opere il tema dell'infelicità amorosa sottolineato dal «tema del Fato che impedisce alle umane speranze di felicità di avverarsi». Un Čajkovskij di 38 anni dall'«aria sofferente» e dallo«sguardo malinconico», quello di Orta: «Un uomo enigmatico che guardava gli altri affabilmente, ma nel contempo dava l'impressione di essere una persona profondamente delusa», le cui «note che sgorgavano dal pianoforte dicevano: "Libero è soltanto chi non ha mai amato"».
Una storia corale resa dai due autori con uno stile perfettamente fuso; che scorre con gradevolezza sulle sponde di un lago meravigliosamente silenzioso, ma il cui scoglio chiamato Bus dell'Orchéra è creduto la soglia degli inferi. Di qui un movimentato universo paesano ricco di belle figure, anche minori (più di maniera solo il predicatore e il marito ufficiale), scandito dai tanti proverbi e modi di dire che riportano suoni e timbri del vernacolo e nel quale, soprattutto nelle cinque Notti Nere del solstizio d'inverno, si vive nel magico continuo intersecarsi del mondo dei vivi con quello dei non-più-vivi. Con Quelli delle Tenebre-di-mezzo che, tenendo d'occhio i mortali in ogni momento, possono, come qui, farsi narratori di questo loro incontro con Čajkovskij.
Čajkovskij e i morti sul lago d'Orta
di Fulvio Panzeri
È una stagione particolarmente felice quella che sta vivendo una delle maggiori scrittrici italiane di oggi, Laura Pariani, tra i cinque finalisti al Premio Campiello che verrà assegnato domani a Venezia, con Il gioco di Santa Oca (La nave di Teseo). Ora pubblica, scritto con Nicola Fantini, un nuovo romanzo, ambientato alla fine dell’Ottocento, che riprende temi, atmosfere e personaggi, di un altro libro scritto in coppia, Nostra Signora degli scorpioni, racconto del soggiorno di Dostoevskij sul lago d’Orta, in un’ottica di coralità rappresentata dal punto di vista degli abitanti del piccolo paese.
Nel nuovo romanzo, Arrivederci, signor Cajkovskij, viene ripresa questa prospettiva, in virtù anche della necessità che gli autori riscontrano di dare la parola alla gente del posto visto che «i turisti del “grand tour” visitavano questo paesino concentrandosi sulle bellezze naturali e artistiche, ma rifiutando in genere altezzosamente i contatti con la gente del posto e lasciando nei loro diari commenti sprezzanti sui poveracci che campavano su queste rive».
Così mettono al centro della narrazione un grande musicista russo come Cajkovskij, reduce dalla fine del proprio matrimonio e in cerca di un luogo dove trovare nuova vitalità per la propria ispirazione, che scopre Orta Novarese nel dicembre 1878. È ospite di una ricchissima vedova russa, Nadezda von Meck, che stabilisce con lui un contratto strano e oggetto di dicerie: i due non possono frequentarsi, né vedersi. Lei soggiornerà poco lontano da lui sull’isola di San Giulio, lui in una spaziosa casa in paese, impegnandosi però a scriversi ogni giorno lunghe lettere. Ne esce un ritratto complesso e veritiero, delle inquietudini del musicista, sottolineato da una sorta di coro che osserva, guarda e accompagna le vicende in prossimità del solstizio d’inverno. È un tema che ricorre spesso nei racconti della Pariani e che qui rilegge tradizioni e credenze popolari della cultura piemontese, quello della presenza dei morti: «Chii nasce sulla riva di questo lago non si sente a suo agio lontano da qui; e prima o poi fa in modo di tornare, anche da non-più-vivo: perché fuori da questa valle si sentirebbe perso e perché ha la sua certezza di essere aspettato se non dagli esseri umani, perlomeno da noi delle Tenebre-di-mezzo».
Loro accompagnano il racconto, lo sottolineano, creano una linea morale, abbattono un confine invisibile, attraverso il loro sguardo non giudicante, che diventa ancor più significativo quando le ombre scure e cupe scendono sul lago. Una donna viene uccisa e cinque giovani ragazze inglesi vengono segregate in una villa da un’istitutrice francese. I sospettii sull’omicida coinvolgono tutto il paese e entra in scena anche un altro personaggio reale, una scrittrice anticonformista per l’epoca, come la Marchesa Colombi. La verità, faticosamente, verrà a galla. Il coro di quelli delle Tenebre-di-mezzo, sottolinea così la verità che dà forza al romanzo: «Ogni delitto crea intorno a sé una specie di vortice che attira inesorabilmente innocenti e colpevoli; e nessuno saprà calcolarne in anticipo né la forza, né la durata: finché il turbine non ha esaurito la sua violenza, nello stesso risucchio si rivoltano l’assassino, il giudice e il paese intero».
Scheda di recensione per la Biblioteca Civica Carlo Bonetta (Pavia), settembre 2019
Echi dei grandi romanzi russi e della letteratura ispanoamericana in "Arrivederci, signor Čajkovskij"
di Federica Pastorino
Ci sono luoghi in cui gli spazi reali e le rappresentazioni letterarie che gli scrittori hanno sovrapposto ad essi si sono fusi in un tutt’uno inscindibile: la Buenos Aires di Borges, per esempio, o la San Pietroburgo di Dostoevskij, la Lisbona di Pessoa... In un saggio del 1982, Claudio Magris definiva Trieste una città fatta di carta, poiché “Svevo, Saba, Slataper non sono tanto scrittori che nascono in essa e da essa, quanto scrittori che la generano e la creano, le danno un volto”. Ci sono dunque scrittori che con le loro opere contribuiscono a ridisegnare i contorni e la storia di un luogo, lo fanno rivivere su carta e anche nella realtà, rinnovato, trasformato.
Nelle pagine di Nostra Signora degli Scorpioni e di Arrivederci, signor Čajkovskij, entrambi editi da Sellerio (rispettivamente nel 2014 e nel 2019), Nicola Fantini e Laura Pariani ridanno vita a una delle possibili Orta Novarese di fine Ottocento, sosta gradita ai turisti stranieri del Grand Tour.
A soggiornare sulle rive del Cusio sono lo scrittore Fëdor Dostoevskij in Nostra Signora degli Scorpioni e il compositore citato nel titolo in Arrivederci, signor Čajkovskij. Ma il protagonista di entrambi i romanzi è il paesino di Orta San Giulio, all’epoca dei fatti Orta Novarese, e gli illustri ospiti russi sono la breccia che permette al lettore di accedere a quell’angolo semi sperduto del novello Regno d’Italia, dove, a dispetto di quanto credono alcuni turisti, nemmeno i morti si annoiano. Tanto che, in Arrivederci, signor Čajkovskij sono proprio “quelli delle Tenebre-di-mezzo” a narrare i tragici eventi che nel dicembre del 1878 portano nuovamente scompiglio nell’abitudinaria esistenza degli abitanti di Orta.
Anche le vicende di Nostra Signora degli Scorpioni, ambientate circa dieci anni prima, nell’autunno del 1869, si dipanavano, infatti, attorno a un efferato delitto. Nel più recente romanzo ritroviamo dunque molti dei personaggi che Fantini e Pariani ci avevano già presentato: chi cresciuto, chi invecchiato, chi passato a miglior vita, tutti, però, come allora invischiati in legami e consuetudini intorbiditi dal tempo, che solo gli strani vezzi dei forestieri di passaggio riescono, di tanto in tanto, a incrinare.
La presenza di Dostoevskij e quella di Čajkovskij sono, seppur marginali, intrinseche al narrato: come suggeriscono gli autori stessi, le vicende dei Fratelli Karamazov risuonano in Nostra Signora degli Scorpioni, mentre sottofondo dell’intera narrazione di Arrivederci, signor Čajkovskij è la sinfonia n. 4, il cui tema di apertura, che si riverbera poi in tutta la composizione, è il “Fato, che impedisce alle umane speranze di felicità di avverarsi” (p. 134), parafrasi di una delle tante lettere che Čajkovskij indirizzò alla baronessa von Meck, sua migliore amica e benefattrice, che Fantini e Pariani immaginano alloggiare in una villa sull’isola di San Giulio.
Allo stesso modo, un greve senso tragico apre e domina l’intero romanzo, che gli autori hanno orchestrato su un italiano straordinariamente leggiadro, qua e là interrotto da pizzicati di dialettalismi locali.
Nell’andamento misurato, nella ricchezza delle caratterizzazioni e soprattutto nella capacità di avventurarsi nel profondo del mai abbastanza conosciuto animo umano – “Ognuno di noi è peccatore e nel segreto della nostra decima anima nascondiamo desideri inconfessabili” (p. 135) – si ode l’eco dei grandi romanzi russi.
Ricorda, invece, i romanzi della letteratura ispanoamericana - in bilico tra realtà e magia - la rappresentazione di un mondo in cui vivi e morti convivono e interagiscono abitualmente, dove eccentrici personaggi hanno il “dono di vedere le creature che vengono dal buio” (p. 103) e sentono quando qualcosa di tremendo sta per accadere.
Servendosi anche di questi elementi magici, la coppia, nella vita e sulla carta, Fantini-Pariani tenta l’esplorazione di quel sentimento, già ampiamente scandagliato e cantato, che, senza una ragione, all’improvviso, può unire due persone: l’amore. È l’amore di coppia, con le sue infinite e imprevedibili manifestazioni ed esiti, il sentimento cardine del romanzo, che gli autori indagano attraverso le differenti esperienze dei personaggi femminili: c’è chi è stata volgarmente tradita e piange la sua sventura e chi muta la delusione in truce vendetta; chi s’è maritata con un uomo dell’età del padre e chi ostenta, soddisfatta e fiera, la propria condizione di donna separata; chi ricorda con dubbio affetto la buon’anima del marito e chi, in un matrimonio malsano, soccombe.
In un mondo dove il rapporto tra un uomo e una donna spesso assomigliava a “una trappola per topi: quelle che ne erano fuori volevano entrarci, quelle che ci stavano dentro agognavano uscirne” (p. 63), la relazione che univa Čajkovskij e la vedova von Meck, basata sulla comune passione per la musica ed espressa esclusivamente attraverso un quotidiano scambio epistolare e la solenne promessa di non incontrarsi mai, non poteva che apparire inevitabilmente incomprensibile e maliziosamente stravagante: “Era amore questo?”, si domanda la stessa von Meck.
Questa è una delle tante domande che il romanzo apre come varchi per addentrarsi nel profondo della psiche umana. “Nella letteratura – scriveva Magris – non contano le risposte date da uno scrittore, bensì le domande che egli pone e che sono sempre più ampie di ogni pur esauriente risposta”.
Nelle pagine di Arrivederci, signor Čajkovskij, Nicola Fantini e Laura Pariani ridanno dunque vita a una Orta Novarese vecchia di oltre un secolo, dove l’amore era un sentimento indefinibile “irto di ostacoli e spesso funesto” (p. 267), la gelosia poteva sfociare in vendette di irragionevole violenza, un uomo non poteva esprimere i propri sentimenti a un altro uomo e la “famiglia tradizionale” non esisteva nemmeno in fotografia.
Oggi, però, per quanto la Orta della saga Fantini-Pariani sia un luogo finzionale, di carta, percorrendo la salita della Motta, risulta inevitabile cercare, tra gli edifici che la delimitano, la casa che ospitò prima Dostoevskij e poi Čajkovskij.