Laura Pariani segue l’avventura di Guido Boggiani, pittore originario del lago d’Orta, che a fine Ottocento raggiunge l’Argentina e il Paraguay attratto dal senso di libertà e dal vitalismo delle popolazioni indigene. Un’avventura fatale.
È la selva la patria dello straniero
di Ermanno Paccagnini
Come spesso le accade, è dai propri luoghi di vita che Laura Pariani prende spunto per la materia narrativa e anche per i personaggi. Una materia che in Selvaggia e aspra e forte ha un preciso nome, cognome e ambientazioni: ossia Guido Boggiani, nato a Omegna (Verbania) nel 1861 e misteriosamente scomparso nel 1901 nel Chaco, tra Paraguay e Bolivia.
Da un lato dunque Omegna, il lago d’Orta, paesini lombardi dell’Alto Milanese; dall’altro l’Argentina, dove Boggiani sbarca l’8 dicembre 1888, per poi risalire sino a quel confine dove si perderà. E il romanzo lo segue, dapprima in Italia (Omegna, Milano, isola di San Giulio, Roma), negli anni della formazione (1867-1887); e poi in Sudamerica (1888-1893), spostandosi da Buenos Aires alla paraguayana Asunción (1888) dopo aver “vagato qua e là nella pampa, fino alla frontiera meridionale” e poi nell’Alto Paraguay (1889), salvo un intermezzo all’Esposizione universale di Chicago del 1893 dove espone due acquarelli e un breve rientro in Europa (1895-1896: Torino, Biarritz, Stresa); per subito tornare, alla ricerca di “grandi emozioni: l’avventura nella selva, il contatto con la natura misteriosa degli indios”; quella “selva selvaggia e aspra e forte” dalla “consueta alternanza di orrori e delizie”, il cui “senso di esaltante vigore che il paesaggio infonde” è ben reso dal verso dantesco del titolo.
E sono due le facce di Guido: il pittore discepolo prediletto di Filippo Carcano, che espone ventenne a Milano, Firenze e Roma, dove entra nel giro di Gabriele D’Annunzio, col quale compirà la celebre crociera in Grecia con il Fantasia (e ne è qui testimone George Herelle) e che lo ricorderà come “Ulisside” in una celebre poesia di Laus Vitae. E l’esploratore, fuggito per liberarsi del “gigantesco anello” delle “troppe tradizioni. Troppe restrizioni”, con la speranza di trovare in Argentina “un paese in cui la gente possa determinare i cambiamenti piuttosto che ostacolarli. Quel che cerco l’è la libertà de andà per la mia dritta”, e per poter “dipingere in una maniera che mi metta in salvo dagli applausi che mi tributavano a Roma, gente che grida bravo, dame che vengono a sdilinquirsi alle mostre”.
Ciò che Guido non immagina è che quel “desiderio di vita nuova” si tradurrà in ben altro, gradualmente ma incessantemente. Es è quanto Laura Pariani scandisce, cadenzando i passaggi di anno in anno, attraverso una struttura “da incontri”, salvo momenti di riflessione d’autore nel Prologo e in un Intermezzo, e due testimonianze postume, del figlio adottivo Moysés, da lui salvato dalle acque; e la giornalista Lucy La Bure, che ha voluto vederci chiaro sulla mmorte di Guido Boggiani attribuita a un indio geloso, con tanto di messa in scena per nascondere i veri colpevoli dell’assassinio su commissione di chi “è una testa fina che sa tante di quelle lingue, potrebbe diventare ricco facilmente, ché qui si possono fare dei begli affari… E invece preferisce mettersi con quei barbari”, intralciando gli affari e lo sfruttamento degli indios.
Ed è proprio attraverso questi personaggi presentati nel corso del viaggio – italiani ed europei là emigrati e nativi, personaggi straordinari a tutti gli effetti, valga anche solo “la curandera Consagración” – che Guido entra sempre più in contatto con quel mondo:in quella natura che in un “trittico smisurato” di metri 15 per 3 riproduce “con fedeltà” in un plein air che è poi la foresta”; per passare a quaderni ricchi di schizzi e infine, al rientro del viaggio in Europa, a scattare “un mucchio di fotografie” agli indios, “per preservare la memoria”, perché sa “che prima o poi gli indios cambieranno adeguandosi ai modi dei gringos, o peggio, spariranno”, e già adesso quel continente sta cambiando, con posti “nati dal nulla”, dove “fino a due anni fa qui c’era solo la selva”, e col sogno del ferrocarril, la ferrovia.
Guido – come dicono di lui – è “molto diverso dalla solita figura di esploratore, mezzo uomo d’azione mezzo sccienziato, che di solito la gente ha in mente: lui è un artista […] viaggia alla semplice ricerca della bellezza, quasi con l’urgenza indiscutibile di un dovere”, sostenitore dell’ “importanza della ricerca sul campo e dell’osservazione concreta, contro l’etnografia accademica, colpevole di pubblicare studi ricavati da opinioni trovate sui libri”. E sono scene di vita animatissime, dove anche il dato antropologico si fa narrazione, sino ad approdare, a fine capitolo dove tali elementi si affacciano, a “storie” di varie tribù, a puntellare coi miti quanto accaduto nella narrazione.
E ne viene una particolarissima forma di “romanzo di una vita”: che Laura Pariani accompagna col consueto stile narrativo poggiante su un’abile mescolanza di italiano, dialetto, idioma locale e parlato, la cui pienezza è rivelata trasversalmente, attraverso la prospettiva delle persone che va incontrando. E che fa dire a una di esse, di questo Guido: che “ha ormai fatto sua così profondamente la selva, che si sentirebbe straniero in qualunque altra parte del mondo”. Perché questo è il suo più profondo desiderio: “Addentrarmi nella foresta, fino a entrare in contatto con le tribù indigene e toccare con mano i segreti della vitalità selvaggia di questa terra, sarei l’uimo più felice del mondo”.
Quel desiderio che lo spinge all’esplorazione a cavallo “nell’interno del Chaco fino ai contrafforti orientali delle Ande alla ricerca di un popolo ignoto, i mitici moros”, il popolo “dai piedi rovesciati”, dal quale non tornerà.
Tuttolibri, La Stampa, 21 ottobre 2023
Guido si incamminò per una selva oscura e non tornò più al suo lago d’Orta
La storia avventurosa dell’artista e antropologo Boggiani, amico di D’Annunzio.
Partì per il Paraguay dove visse insieme agli indios e fu assassinato da sicari nel 1901
di Laura Pugno
Dal futuro immaginato di una distopia infantile e per questo tanto più crudele,al non così remoto passato di fine Ottocento e primi Novecento, tra Omegna e il lago d’Orta dei pittori naturalisti di scuola lombarda e l’Alto Paraguay – terra di emigrazione, sopravvivenza, incontrollata conquista – sulle piste del pittore ed esploratore, fotografo e auntopologo Guido Boggiani.
Questo il viaggio di Laura Pariani, dal suo ultimo romanzo, Apriti, mare! del 2021 al nuovissimo titolo Selvaggia e aspra e forte. Non c’è chi non riconoscerà la citazione della Divina Commedia sulla selva pre-infernale in cui mondo dei morti e mondo dei vivi accennano a confondersi. Come pure accade nelle prime pagine di questo romanzo, che sembra all’inizio fare mimesi del genere thriller sovrannaturale per svolgersi poi in indagine biografica, metà testimoniale metà fantasmale, su un personaggio, Guido Boggiani, che tanto più dissona col proprio tempo quanto più appare, tra le parole di Pariani, anticipatore d’avvenire.
Tale sembra, soprattutto, Boggiani, nell’abbandono della postura arrogante ed eurocentrica della sua epoca nei confronti degli Altri e dell’Altrove (Altri e Altrove per noi), a favore di un dialogo curioso e affascinato con i popoli chamacoco e caduveo (kadiweu) della regione del Chaco, tra i quali va a vivere, adottandone i costumi, fino alla morte violenta che con ogni probabilità, ricostruisce Pariani, sarà proprio questa scelta a procurargli, facendone un nemico dei molti che di quelle terre vogliono impossessarsi.
Se quello di Guido Boggiani è in qualche modo un viaggio nel tempo, verso un mondo che si presenterà come passato comune dell’umanità pur appartenendo intensamente al presente, anche il nostro lo è, in direzione di uno ieri che tanto, troppo somiglia all’oggi, nel leggere il romanzo di Pariani, quasi tutto costruito su inquadrature di reazione.
Dalla cornice della storia, in cui l’autrice ci si mostra mentre riordina, nelle lontananze di Bahía Negra, le ipotesi sulla fine del suo protagonista, assassinato nel 1901 – probabilmente da sicari, e su commissione – mentre si avventura senza scorta sulle tracce di una tribù che oggi diremmo non contattata, e ritrovato solo mesi dopo; ai molti capitoli in cui Pariani mette in scena amici, familiari, nemici – testimoni non neutrali, dalla lingua pastosa e intrisa di dialetti e altre lingue, in primis il castigliano sudamericano - , interlocutori costanti o casuali su cui la presenza di Guido, nel corso della vita, non cessa di produrre effetti, di mettere in dubbio convinzioni radicate, di provocare scelte o nostalgie; fino alle pagini conclusive dedicate all’Ultima notte, in cui incontriamo finalmente Boggiani faccia a faccia, prima che la morte violenta che uccide lui e il suo compagno nativo Félix Gavilán
lo dissolva in quella selva in cui – come in ogni paesaggio, ma qui ancora con più forza – ogni cosa è e resta vivente: in tutti questi snodi e sviluppi, il Guido B. di Laura Pariani, trasfigurato in Ideale dell’Io, ci appare come quello che in una sceneggiatura chiameremmo un angelo viaggiatore, che modifica come un reagente chimico i luoghi, le dimore, le persone che attraversa, sempre in cerca di un Oltre. E se ne viene modificato, come dai chamacoco e kadiweu – a cui dedicherà pubblicazioni etnografiche importanti, oltre a redigere un Vocabolario dell’idioma guaná – è nel senso di diventare ancor più se stesso, di un inveramento.
In questo senso, il Boggiani di Laura Pariani ci ricorda il “diplomatico andato a inforestarsi presso gli altri viventi”, che ne ritorna “tranquillamente inselvatichito”, di cui parla il filosofo francese Baptiste Morizot nel saggio Sulla pista animale (Nottetempo, traduzione di Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri). Qualcuno a metà tra due universi, e in grado di farli comunicare, in vista della costruzione di un mondo comune.
Poco ricorderemmo oggi di Guido Boggiani senza la sua – allora incomprensibile – scelta di abbandonare il successo raggiunto nelle sfere dell’arte per una remota vita di etnografo, linguista e fotografo dei popoli della “seconda Amazzonia”. E forse Laura Pariani non avrebbe scritto questo romanzo se il suo protagonista fosse rimasto solo l’apprezzato pittore allievo di Filippo Carcano e amico di Gabriele D’Annunzio – con cui compirà il viaggio inGrecia sillo yacht Fantasia nell’estate del 1895, che sarà ricordato nelle Laudi – accolto con slancio negli ambienti della Roma più mondana del suo tempo, e invitato nel 1893 all’Esposizione mondiale di Chicago. Non più molto ci direbbe, nell’epoca non solo della riproducibilità tecnica, ma dell’infinita manipolabilità della realtà da parte dell’arte, un’opera che consistesse solo in morbidi paesaggi di laghi e boschi di castagni. Ci parlano ancora, invece, e intessono questo romanzo della loro presenza, gli inquieti o apertamente ridenti ritratti fotografici degli Altri tra cui Boggiani dimorò. A questi volti, e ai loro paesaggi e oggetti, è dedicata la mostra “Il Chaco ieri e oggi”, a cura di Gherardo La Francesca, ex ambasciatore in Paraguay, e Luca Rugie, che negli ultimi tre anni ha fatto tappa in Paraguay, Argentina e Italia, a Roma Verbania e Novara. La rassegna è organizzata dalla ONG Museo Verde di Karcha Balut, che si è data la finalità di conservare la memoria e le tradizioni dei popoli della regione, promuovendoil binomio ambiente/culture locali come fattore di sviluppo sostenibile e costruendo, in modo diffuso, una rete di piccole infrastrutture museali per raccogliere oggetti e strumenti della memoria ancestrale. Inoltre il Museo Verde ha lanciato il patto per il Gran Chaco, proposto in occasione della COP 26 di Glasgow nel 2021, per dimostrare che esistono alternative economicamente sostenibili alla deforestazione.
Cultweek (sito web) - 6 novembre 2023
Nella selva il gioco della ferocia umana
di Michela Fregona
Un uomo si spinge nel cuore della selva, inseguendo una popolazione leggendaria e misteriosa. Scompare. Il suo corpo viene ritrovato orrendamente straziato.
Ma chi è, veramente, Guido Boggiani? E quale è stata – davvero – la foresta nella quale il suo destino si è addentrato?
Ventitré voci di testimoni non neutrali dicono la loro: è l’avanguardia dell’intelligenza umana, è un impiastro che deve sparire, è un pericoloso utopista, è il futuro che potremmo diventare, è semplicemente uno dei tanti sprovveduti di passaggio – un gringo che non sa nemmeno bere il mate.
Ognuno ha un proprio personale ricordo, ognuno ha qualcosa di veritiero da raccontare: chi non parla, pensa – e così, tutte insieme, le voci si intrecciano a distanza, e concorrono a ricostruire, nodo dopo nodo, la trama che forma il tappeto sul quale ha camminato la vita terrena di Guido Boggiani. Ed è chiaro che, prima ancora che dentro al verde inquieto del Chaco, di cui è stato esperto e amico, altro è l’intrico nel quale la sua vita ha deciso di inoltrarsi.
Tanto, tantissimo si arriva a intuire del protagonista del nuovo romanzo di Laura Pariani, Selvaggia e aspra e forte (pubblicato da La Nave di Teseo): pittore di successo, talento inappagato, uomo irrequieto, spirito avventuroso, esploratore della foresta, fratello degli Indios, fotografo di corpi di bellezza vivida e sconvolgente.
Ma, proprio come nell’armatura di un tessuto, anche in questa storia nessun filo, da solo, è sufficiente per dare contezza del disegno complessivo, e per capirne il senso occorre che l’opera sia conclusa e una distanza venga presa.
Il tempo, quello cronologico delle vicende, è un arco che va dal 1867 (Guido è un bambino di 6 anni), indugia intorno al 1898 (il periodo nel quale Boggiani, che è tornato stabilmente in Paraguay per la seconda volta, progetta una nuova esplorazione dei territori sconosciuti della selva), e sborda un poco oltre il 1901, quando l’indagine sulla sua morte si chiude frettolosamente con una archiviazione senza movente.
Ed è nel 2008 che, decantato il rumore della vicenda, una donna riprende in mano i taccuini, i giornali, le testimonianze, cerca di entrare nello sguardo di un artista refrattario alle pose, e mette i piedi sulle sue orme chiedendosi perché, decisa a restituirne memoria.
Laura Pariani torna nelle atmosfere pluviali e remote di Quando Dio ballava il tango, e come allora è maestra nel tessere un intreccio che è, contemporaneamente, romanzo corale e vicenda storica, affresco antropologico e riflessione civile.
“Incontri, incastri della vita. La telaragna del tempo è la stessa in ogni parte del mondo: quando l’ala di una storia ne sfiora un filo, tutto il tessuto del tempo si muove”.
All’inizio, il Sur, il Sud estremo che sta oltre l’oceano, è poco più di un sogno: una parola che occupa il destino di generazioni di poveri e disperati a cui non resta altro che andare; e che poi, da lì dove sono arrivati, mandano indietro racconti che hanno bisogno di essere prodigiosi, perché serve nascondere una realtà difficilmente immaginabile di fatica e lacerazione, e non ci si può permettere il rischio di far perdere di senso alla propria vita.
Ma poi il Sur diventa una promessa di totale avventura: cresce la sua fascinazione remota insieme all’assiduità della sua frequentazione, insieme ai terreni sottratti alla foresta, alle baracche che diventano città, ai chilometri che la ferrovia si mangia per avanzare (perché sin ferrocarril no hay fábrica…).
Le vite che vi si stabiliscono, che vi nascono, che intraprendono periodicamente un ritorno a tempo nel Vecchio Mondo, maturano la propria identità sulla base della comparazione. Tutti gli europei, coloni, sono ossessionati dall’affermazione della propria alterità rispetto agli indios: una alterità che, naturalmente (nella pastura di nazionalismo, rancore, ignoranza e violenta volontà di affermazione che contraddistingue ogni conquista) ha i connotati della superiorità.
Guai scoprirsi, pur nell’agiatezza guadagnata coi denti, periferia del mondo; guai confessarsi quello che la quotidianità di paesaggi e natura sproporzionatamente diverse serve sotto gli occhi – ovvero che, nella migrazione, si è cambiati, in modo irrimediabile, contaminati (anche nella negazione assoluta) dal contatto con l’altro.
Eppure lo dice la lingua, e in questo Laura Pariani è abilissima a orchestrare una deriva del parlato di questo romanzo, che slitta pian piano dalla commistione materna dell’italiano attraversato dalla sprudenza, dalle parole che conservano memoria di una infanzia dove trovano posto ridaróla, incandelarsi, bisnàga, a un nuovo modo di dire le cose nel quale entrano non solo il castigliano d’oltreoceano, ma anche le interferenze delle parlate autoctone, i nomi di un presente tutto nuovo, inventato e sconosciuto (il palo santo e la toldería, la curandera e l’anaconda). E, soprattutto, un patrimonio di leggende, figure mitologiche, divinità della selva, archetipi difformi che tutto pervade.
“Il mito (…) è la materia prima della poesia, dell’arte, di qualunque arte. È il motore poderoso capace di evocare l’emozione primitiva, quella che sta nascosta nel cuore dell’uomo, e di tirarla fuori integra, fresca e sanguinolenta per il fiore della realtà”
Mentre la storia si intreccia, e le voci si sovrappongono da tempi e latitudini diverse, Guido compie una dislocazione: quando è in compagnia di europei si fa lontano; e quando lontano lo è davvero, e solitario dentro la foresta, maggiore è la consapevolezza che acquisisce sulla distanza incolmabile che lo separa dal mondo in cui vive, perché capisce che la sua natura è sempre più altrove.
Comincia così la sua metamorfosi: fugge dal successo all’inseguimento di una verità, abbandona le mostre che l’hanno visto entrare nei giri di chi dell’arte fa posa e potere (D’Annunzio, Scarfoglio, la bohème milanese degli Scapigliati), si inoltra con cavalletti giganti su cui monta tele abnormi, perché della selva vuole la grandezza naturale – e la selva si fa belva mansueta davanti al suo pennello, si lascia ritrarre, lo cinge con le sue radici. E compie la sua seduzione.
“Perché di enigma si tratta (…) Guido è diverso e affascina proprio per questo: viaggia nella semplice ricerca della bellezza, quasi con l’urgenza indiscutibile di un dovere. (…) Perché un artista – che sia pittore, fotografo, attore o scrittore poco importa – ha sempre uno sguardo speciale, anzi bisogna proprio che ce l’abbia: deve essere spinto da una specie di follia amorosa per fare il suo lavoro. Alla base di ogni arte c’è questa fiamma negli occhi, questa capacità di credere nei propri occhi. Perché, se non si possiede questo fuoco amoroso, non si vede nulla”.
Il fatto è che Guido Boggiani corre veloce, e corre più in lungo. Più di quelli a cui dà fastidio, perché in piena stagione di darwinismo sociale e di pseudoscienza lombrosiana decide di intrattenere con le popolazioni autoctone un rapporto squisitamente umano, non giudicante e, al contrario, disposto all’apprendimento dell’altro. Più di quelli che vorrebbero decisamente toglierlo di mezzo, perché rispetto ai propri interessi di faccendieri, padroni e padroncini, tutto questo umanesimo geografico non è altro che un impedimento fastidioso, e pericoloso (metti mai che queste strampalate idee di rispetto e sacralità della natura non decidano anche di diffondersi…).
Ma corre più anche di quelli che provano per lui un affetto complicato. E così, per definirlo, queste voci sono pure difettose, testimonianze che portano sempre, dentro il loro racconto, la negazione di qualcosa che avrebbe potuto essere ma non è stato: Dolinda, la balia, è la non madre, Elvira la non amante, Paoletta la non fidanzata, Moysés il non figlio (e poi: Gianmaria il non amore, e George, il non compagno).
Non è possibile, del resto, fermare ciò che è lo spirito di Guido Boggiani (e per questo è ancora più apprezzabile che la sua testimonianza arrivi da buona ultima, mentre le parole dei suoi taccuini acquisiscono, capitolo dopo capitolo, la consistenza di una premonizione): nella foresta è diventato Patrão Boyani, ha deciso di appartenere anche alle genti che si muovono, ha appreso come si fa a muovere il mondo proprio da quegli indios che i suoi occhi non riescono a vedere con il cervello dei bianchi.
La selva – il territorio senza legge, la prodigiosa riserva di alberi pregiati, il luogo del pericolo perenne, la terra dove tutto è guerra e la violenza infuria, il tempio dell’ultima sacralità – non è solo la quinta, ma è anche la trama che lega ognuna delle vite che si incrociano sotto il suo cielo. Suo è il mistero degli ultimi istanti della vita di Guido (che finisce, a dispetto di tutti, per appartenerle)
“Questa pianura infinita abbracciando il mondo suggerisce la terribile idea che tutto sia possibile”
Il Sole 24 Ore - 19 novembre 2023
Dagli indigeni Pitayovai all'Odissea
Laura Pariani ricostruisce la vita del pittore ed etnologo Guido Boggiani che scelse di conoscere meglio sé stesso nelle foreste del Paraguay
di Gino Ruozzi
Il nuovo libro di Laura Pariani è dedicato alla figura del pittore ed etnologo Guido Boggiani, nato a Omegna di Novara nel 1861 e morto nelle foreste del Paraguay nel 1901-1902, assassinato e «fatto a pezzi» in circostanze non ancora del tutto chiarite.
È un romanzo corale che Pariani fa raccontare dai molti «testimoni» della vita di Boggiani, dai famigliari e dagli amici europei a quelli dell'America latina in cui Guido andò più volte dagli anni Ottanta alla morte. La vita di Boggiani è molto interessante sia per la qualità artistica sia per la caparbia esplorazione delle selve «selvagge e aspre e forti» del Paraguay, inferni e paradisi di timbro dantesco per i quali egli provò una irresistibile e fatale attrazione. Le sue pubblicazioni e i diari di viaggio sono preziose miniere di notizie e di appunti conservati in vari musei europei e valorizzati da Claude Lévi-Strauss in Tristi Tropici.
Boggiani coltivò la seduzione dell’esotico che nel secondo Ottocento catturò anche Rimbaud, Stevenson e Gauguin: il desiderio di lasciare la civiltà per cercare le «terre vergini», nella scia del mito settecentesco del buon selvaggio di Rousseau. Per cui, da artista affermato, egli scelse di conoscere meglio il mondo e sé stesso incontrando le radici incontaminate dell'umanità. Passando così dall'estetizzante compagnia del coetaneo Gabriele d'Annunzio e di Edoardo Scarfoglio, con i quali condivise nel 1895 la crociera in Grecia sullo yacht «Fantasia» (qui ricordata dal traduttore francese di d'Annunzio, Georges Hérelle), agli indigeni cannibali delle foreste sudamericane del Chaco paraguayo.
Pariani ricrea l’esperienza di Boggiani con scrupolo documentario e partecipe passione, cosciente della sempre ardua «ricostruzione dei fatti nell’equilibrio tra verità e finzione». Nella prospettiva di capire le ragioni dell’«intrico di passioni amorose» che indussero Boggiani a compiere un salto così rischioso e sventurato, mosso non solo da aspirazioni personali ma dall'essenza stessa dell'artista. «Perché un artista», afferma Pariani, «che sia pittore, fotografo, attore o scrittore poco importa - ha sempre uno sguardo speciale, anzi bisogna proprio che ce l’abbia: deve essere spinto da una specie di follia amorosa per fare il suo lavoro»: «se non si possiede questo fuoco amoroso, non si vede nulla».
Selvaggia e aspra e forte è un’altra fondamentale tessera del mosaico che Pariani sta componendo da decenni sull'America Latina, l'Argentina e Buenos Aires in particolare. Storie che hanno a che fare con un intrinseco senso di lontananza e di appartenenza, di apparente casualità del destino. Vi si intrecciano biografia e autobiografia, come nei romanzi La straduzione (2004), basato sul ventennale soggiorno argentino dello scrittore polacco Witold Gombrowicz (dal 1939 al 1963), e Questo viaggio chiamavamo amore (2015), sull'ipotetico viaggio del poeta Dino Campana in Argentina, fondato su quel visionario «azzardo dell'ignoto» che ne ha segnato la vita dai Canti Orfici (1914) al manicomio di Castel Pulci (1918-1932, dove fu seguito dallo psichiatra Carlo Pariani). Quell'«azzardo» che in situazioni diverse è costato la vita sia a Boggiani sia a Campana. Alle storie individuali si affiancano quelle collettive, legate soprattutto all’immigrazione italiana di primo Novecento, raccontata attraverso il punto di vista dei figli nel romanzo Dio non ama i bambini (2007), in cui i «fatti narrati s'ispirano ad avvenimenti reali accaduti a Buenos Aires tra il 1904 e il 1912». (L'attenzione per i bambini è un'altra costante di Pariani, in Selvaggia e aspra e forte fissata nell'emblematica «storia mbayá» delle Pleiadi, «le stelle che noi chiamiamo i Fratellini»).
In chiusura del romanzo a sei voci L'uovo di Gertrudina (2003), Pariani scrive illuminanti considerazioni sull'ottica e la natura del proprio orizzonte narrativo, perché «mi pare a volte che tutti i miei personaggi siano racchiusi nella stessa storia, la mia; e che, senza davvero che me ne rendessi conto, episodi intimi da conservare sigillosamente nel chiuso delle mie fantasie o dei miei rimorsi siano passati sulla bocca di tutti, diventando interpretazioni di altri, pagine di libri».
Nelle vicende e nelle persone che Pariani mette in scena c'è sempre un profondo riflesso personale, che è l'essenza stessa della sua letteratura (definita favoloso e ariostesco «mondo di tutte le immaginazioni»). Sia dal lato dell'autore sia da quello del lettore, perché «sempre da qualche altra parte, in un altro tempo, qualcuno racconterà una storia che ha a che fare intimamente con noi, qualcosa che riguarda la polvere che siamo, il nostro niente che reclama amore».
In questo ricco e fedele contesto espressivo la tragica storia di Boggiani assume il valore di un altro essenziale capitolo di evoluzione e approfondimento del «nuovo mondo». Al conflitto sociale e al bisogno di giustizia che caratterizza molti romanzi di ispirazione sudamericana e altri sulle rivolte popolari italiane (come La signora dei porci e il secentesco e manzoniano Il gioco di Santa Oca) si aggiunge un’epica di misteriosa avventura, qui racchiusa nell’enigma degli indigeni «pitáyovai», quelli «coi piedi alla rovescia».
Per Pariani c'è una singolare aria di famiglia che accomuna le abitudini e i riti degli indigeni sudamericani all’Odissea, «che ho portato con me, per rileggerla come faceva Guido Boggiani quando abitava qui». Specialmente nelle istruzioni di Circe per evocare i morti contenute nell'undicesimo canto del poema omerico: «quello che mi colpisce è la straordinaria somiglianza tra le leggende di questa regione e le antiche parole di Omero: la fossa, le vittime sgozzate a testa in giù, il sangue che ne scorre “fumido e negro”, le ombre che accorrono assetate di ciò che simboleggia la vita di cui i non-più-vivi hanno rimpianto».
Note e accenti che mi hanno ricordato la crudeltà e la pietà per i morti del commosso epilogo della Casa in collina di Cesare Pavese.
laletteraturaenoi.it - 23 febbraio 2024
Pluralità di voci e alterità indigena in “Selvaggia e aspra e forte” di Laura Pariani
di Morena Marsilio
Polifonia di voci, caleidoscopio di forme
È scritto all’insegna della polifonia l’ultimo libro di Laura Pariani, narratrice dalla mano ferma e dallo stile inconfondibile che spesso ama ambientare le sue storie in America latina, componendone un ritratto quanto mai vivido nei temi e nelle forme: si pensi, a titolo di esempio, a due dei suoi precedenti lavori: Quando Dio ballava il tango (2002) e Dio non ama i bambini (2007).
Selvaggia e aspra e forte è al contempo romanzo storico, biofiction, inchiesta su una morte misteriosa: al centro sta l’indagine sulla fine, avvenuta in Paraguay nel 1901, del pittore Guido Boggiani, uno degli allievi più promettenti di Filippo Carcano. Il libro è strutturato come un concerto a più voci nel corso del quale il punto di vista di ventitré diversi personaggi si succede nella ricostruzione della vita dell’artista che, di questa serie di micronarrazioni in terza persona, è il ventiquattresimo e ultimo “solista”. L’effetto caleidoscopico dovuto ai molteplici racconti è inoltre efficacemente dilatato grazie all’inserzione di una serie di apologhi che, a intervalli irregolari, sospendono la narrazione principale con leggende di origine sudamericana: è infatti a cavallo tra Paraguay, Brasile e Bolivia che è ambientata gran parte della vicenda, tra fine Ottocento e gli albori del Novecento, e il succedersi di storie mapuche, gauranì, chamacoco, xavànte ecc. permette al lettore un’immersione ancora più intensa nel mondo indigeno. Infine, in un ultimo gioco di specchi, c’è una narratrice di primo grado che, nel Prologo iniziale e in un Intermezzo, data il suo viaggio a Bahìa Negra, nell’alto Paraguay, nel settembre 2008, alla ricerca di notizie certe sulla morte di Boggiani. La donna intreccia alle poche certezze anche l’alone mitico di cui ormai Guido, e il compagno chamacoco Gavilán, sono protagonisti: è una leggenda che Aparicio, un cantastorie (neanche a dirlo) cieco tira fuori “con la sua parlantina fiorita” tanto da riuscire a far apparire “la selva selvaggia e aspra e forte, che dorme chiusa nel suo mistero” (p. 298). Alla domanda della donna – “Usted sa davvero come è morto Guido Boggiani?”, l’uomo le risponde “Quién sabe. Qui in Paraguay morire è più facile che starnutire, madre” e la esorta a raccontare, raccontare, raccontare perché a nulla vale tenere nella testa troppi pensieri: “l’unica cosa che resta davvero di noi sono le storie che abbiamo saputo contare finchè i vermi non ci mangiano la lingua” (p. 303). Emerge qui un assaggio di quello che è un tratto costante e al contempo originale dei romanzi di Laura Pariani, ossia il lavoro sulla lingua che ha il suo tratto distintivo nel pastiche: fluidamente si tengono insieme lungo la narrazione l’italiano – arricchito di tratti tipici del parlato e del dialetto – il castigliano d’oltreoceano e i termini indigeni.
Selvaggia e aspra e forte è, dunque innanzitutto un romanzo corale in cui chi prende la parola – dall’io narrante alla ricerca della “verità” all’aedo Aparicio, dagli europei emigrati alla balia piemontese che apre il libro – contribuisce a delineare la storia di un giovane pittore paesaggista che, a poco più di vent’anni, era già entrato nel bel mondo romano, a contatto con D’Annunzio e Scarfoglio ma che, annoiato dal suo stesso successo, nauseato dalla mondanità e enormemente curioso si imbarca alla volta del Sudamerica. All’epoca questa era per lo più terra di conquista sia di moltissimi europei intenzionati a trasformare le fitte foreste tropicali del Mato Grosso e del Chaco in produttive piantagioni sia di gringos reduci dalle guerre della Triplice e disposti a mettersi al soldo dei primi.
Una natura rigogliosa, insidiosa
Oltre alla ricca, varia umanità che si muove nel romanzo, anche la Natura assurge al ruolo di personaggio, come si intuisce dal titolo di ascendenza dantesca e dall’immagine di copertina, “Uomo mangiato da una pianta” di Una Woodruf.
Pariani sembra voler tradurre nel linguaggio verbale i colori e le forme del paesaggio tropicale dipinti dal suo protagonista; nel capitolo in cui Raymundón Brennan rievoca la storia della sua amicizia con Guido, l’autrice descrive proprio attraverso lo sguardo dell’irlandese l’enorme trittico dipinto en plein air nella foresta:
Guido ha rappresentato la radura a grandezza naturale: è questo che lascia boccaperta Raymond mentre passa da una tela all’altra. In primo piano c’è la radura. Lì gli alberi abbattuti ai margini della selva, su cui cresce un fitto strato di rovi e sterpi che preserva l’umidità del suolo. […] Appena dietro stanno i guayachi alti come torri, la chioma in forma di canestro. E le liane che pendono dai rami, i parásitos colorati…Tra un fitto di rami si intravede la curva del fiume, proprio lì dove l’acqua smangia la barranca di sabbia e riposano i fenicotteri rosa. A destra l’arenile scintilla come se fosse composto di vetri rotti, più sotto la spiaggia sembra ricoperta di polvere di granati. Infine, sullo sfondo, la montagnola azzurra dall’altra parte del río.
La radura è riprodotto con fedeltà: i fiori rossi a forma di farfalla dell’Erythrina crista-galli dai riflessi di smalto, le zolle erbose, l’uccello col becco che pare un gran cucchiaio, centinaia di verdi diversi, l’acqua color cioccolato e il celeste dell’aria, lo sguardo vitreo dei lucertoloni che si affacciano tra gli spini. (L. Pariani, Selvaggia e aspra e forte, Milano, La nave di Teseo, 2023 pp. 140-141)
Alla malía di una natura rigogliosa e sfrontatamente bella, che agli occhi di Boggiani merita di essere ritratta in tutta la sua fulgida vitalità, si contrappongono l’insofferenza, il fastidio di buona parte dei coloni europei, che possono finire perfino per impazzire in quella terra lontana; la voce è quella di Doña Leda, una piemontese giunta in America del sud all’età di sei anni e oramai naturalizzata, suo malgrado, in quel luogo per molti versi inospitale:
Il primo a andar fuori di zucca è stato Bernard, il marito di Elisabeth: […] molti dei suoi connazionali vogliono tornare in Germania: poco a poco devono aver cominciato a avvertire l’angoscia di vivere così lontano dal cosiddetto “mondo civile”, intrappolati nella selva. Ché questo è un inferno verde che ti aderisce alla pelle eppoi ti risucchia: sta muraglia di foglie picchiettate di fiori mostruosamente grandi, sta terra rosso sangue, l’acqua delle lagune color opale, gli odori piccanti dei frutti esotici…tutto ti avviluppa fino a strangolarti. (Ivi, p. 102)
Guido Boggiani e l’incontro con l’Altro
Pariani mette al centro della sua narrazione un rilevante tema antropologico, quello dell’incontro con l’Altro: come scrive Todorov in La conquista dell’America, possiamo “scoprire gli altri in noi stessi, renderci conto che ognuno di noi non è una sostanza omogenea e radicalmente estranea a tutto” ma anche che “gli altri sono degli io: sono dei soggetti come io lo sono”. È questo, in sostanza, il nucleo dello spostamento culturale che caratterizza la vicenda di Boggiani in Sudamerica: l’abbandono dell’europocentrismo a favore del desiderio di conoscere e comprendere gli indigeni. Questo movimento passa attraverso tre fasi determinanti: il giudizio di valore (per dirla ancora con Todorov “l’altro è buono o cattivo, mi piace o non mi piace, […] è mio pari o un mio inferiore”), un movimento di avvicinamento culturale e valoriale e, infine, il pieno riconoscimento dell’identità dell’altro (particolarmente evidente nelle ultime pagine del romanzo).
Nel corso della prima spedizione in Paraguay (1888-1893) Guido Boggiani pare muoversi animato solo da una curiosità etnografica: Guido ritiene questi uomini degni di attenzione, di studio, di considerazione a differenza della maggior parte degli europei, generalmente sprezzanti nei confronti delle popolazioni indigene, ritenute inferiori e da sottomettere (nel capitolo “Leo Carnero, nato a Novara nel 1869” Pariani ricorda le ricerche dei lombrosiani che si dichiarano “interessatissimi alle misurazioni dei selvaggi” riscontrando tutti i “segni pe-cu-lia-ri di primitivismo” p. 213).
Nel corso del suo secondo e ultimo viaggio (1898-1901) porterà con sé una delle prime macchine fotografiche per fissare, su lastre voluminose e pesanti, uomini e donne del Gran Chaco: molte di queste immagini saranno poi spedite alla Società Geografica Italiana. Spetta a Etacadahuana, moglie del capo, raccontare quest’altra scheggia biografica: la passione e la pazienza con cui lo strano gringo – “sto bianco che si sforza di imparare la lingua della tribù della Cicogna” – chiede il permesso di scattare le foto a uomini e donne.
Ma nei suoi anni di permanenza in Sudamerica, Boggiani, sempre più libero dagli automatismi della civiltà europea, avvierà un processo di avvicinamento culturale e valoriale con gli indigeni che lo renderà inviso a una parte della comunità bianca, su tutti al latifondista Don Josefo Crevatin:
Le immagini che Raymond ha del suo amico pittore somigliano alla visione di un caleidoscopio, formata da decine di pezzi sconnessi, che si uniscono e si modificano continuamente. Ecco, in un momento Guido sta sotto le palme, avvolto in una pelle di bue, fradicio di pioggia che cade da giorni. Un altro giro della memoria e spunta l’artista apprezzato dalla critica sui giornali che vengono da Asunción. Nuova rotazione delle lenti e Guido è l’uomo che smette di portare scarpe, perché decide di condividere fino in fondo la vita degli indios, epperciò vuole che i suoi piedi delicati si abituino ai travagli degli spini e delle morsicature delle serpi… […] “Mi sa che Guido ha ormai fatto sua così profondamente la selva, che si sentirebbe straniero in qualunque parte del mondo”, commenta Isabel al marito. (pp. 142-143)
In questo “inselvarsi” sta forse il nucleo esistenziale più interessante del personaggio finzionale ricreato da Laura Pariani intorno alla figura biografica di Boggiani. Il far sua “così profondamente la selva” non dà luogo a un processo di inselvatichimento ma piuttosto a una duplice scoperta: Guido sente di dare fiato alla parte migliore di sé solo quando decide di star fuori dalla “migliore società d’Europa” che ha frequentato; al contempo sente di essere sé stesso solo in una comunità “altra” che sceglie come propria nonostante lì, il diverso, sia lui.
L'Indice dei Libri - ottobre 2024
Con l'America disegnata sotto i nostri piedi
di Maria Vittoria Vittori
In un paesaggio narrativo dai contorni espressivi a volte fin troppo pianeggianti e prevedibili, questo romanzo di Laura Pariani Selvaggia e aspra e forte spicca non soltanto per la trama straordinariamente fitta di avventure, ma anche e soprattutto per l’espressività ricca, impetuosa e sfidante, che vale come una cartografia da esplorare. Di cartografie ce ne sono molte, nel romanzo, a partire da quella pagina dell’atlante su cui una bambina punta il dito, proclamando fieramente di voler andare nel “Matto Grosso” - forse l’autrice stessa, nella dedica -, e da quel mappamondo con l’America disegnata “sotto i nostri piedi” che ispira il piccolo Guido Boggiani a scavare una buca per poterla raggiungere. Guido Boggiani, nato a Omegna, nel novarese, il 25 settembre 1861 e ritrovato cadavere nel Gran Chaco paraguayo il 20 ottobre 1902, è il protagonista di questo romanzo costruito come una complessa indagine aperta sulla poliedrica personalità del pittore, fotografo, esploratore e etnologo che D’Annunzio celebrò con l’epiteto di “ulisside”. Era un’epoca movimentata, quella di fine Ottocento in cui è vissuto Guido; un’epoca contrassegnata da quelle imponenti trasformazioni scientifiche e tecnologiche esaltate nelle Grandi Esposizioni, ma anche dalle rivolte sociali e politiche, che vede partire dall’Europa in direzione del continente americano una quantità impressionante di persone, tra le più disparate: indigenti e perseguitati politici in cerca di pane e di libertà, imprenditori e affaristi a caccia di nuove opportunità, artisti nauseati da una cultura percepita come asfittica. E molti di loro si dirigono verso l’America del sud, che con l’ampiezza dei suoi territori ancora in gran parte incogniti - la Patagonia tra l’Argentina e il Cile, il Mato Grosso in Brasile e il Gran Chaco diviso tra più stati - costituisce la meta più promettente sia per le risorse da sfruttare sia per i progetti di esplorazione o di radicale cambiamento. È lì che si reca Guido, nel 1887, e per ricostruire i suoi frequenti spostamenti ma anche il suo passato, la scrittrice - che si è stabilita a Bahía Negra, località dell’alto Paraguay dove Guido si è fermato più di una volta – non si limita a consultare documenti, ma convoca idealmente una serie di testimoni, ognuno chiamato a raccontarlo nella dimensione del ricordo, nella quotidianità dei rapporti, o nelle avventure condivise. E se per bocca della vecchia balia e del custode della villa di famiglia prendono vita le immagini di un bambino dalla curiosità insaziabile, ci si inoltra nello spessore della sua personalità artistica e nella trama culturale di fine Ottocento, a Milano come a Roma, attraverso il racconto di Elvira Fraternali Leoni- la Barbarella dannunziana -, l’incontro a Bahía Blanca con Paoletta Arrighi, segretaria e amante di quell’Angelo Sommaruga di “Cronaca bizantina” fuggito in Argentina per guai giudiziari, la testimonianza del filosofo e traduttore Georges Hérelle, che ha ben vivo nella memoria il viaggio fatto con Guido, D’Annunzio e Scarfoglio a bordo del veliero “Fantasia”. È proprio a lui che l’autrice affida parole illuminanti su quella smania di evasione che a molti risultava incomprensibile: “in Italia non si ritrovava più: Roma poteva offrirgli a profusione comodità, ma la letizia del cuore non poteva dargliela”.
Quello che Guido cerca, nel suo addentrarsi nei territori più sconosciuti del Paraguay, è l’incontro, totalmente aperto e privo di condizionamenti, con realtà altre e radicalmente diverse: con una natura dai colori sontuosi e dalla bellezza ferocemente rigogliosa; con uomini e donne che in quella natura sono immersi e ne attingono esperienze e saperi a noi ignoti. In una delle scene più intense della narrazione, l’autrice immagina che il protagonista racconti impressioni, desideri e progetti a Consagración, la vecchia curandera di Puerto Casado e lei vi riconosca il timbro dell’autenticità: “la tua storia-gli dice- sta dentro la selva come l’osso della pesca o il seme ovale del mango”. E difatti, gli indios chamacoco si lasciano avvicinare e fotografare -come raccontano da prospettive diverse Aonchi, dapprima diffidente, la vivace Etacadahuana, il vecchio cacciatore Biguá - e lui, dal canto suo, ne assimila voracemente tradizioni e costumi: una vera e propria osmosi tra culture che trova la sua rappresentazione in una scrittura splendidamente meticcia.
Nel corso degli anni Guido ha saputo crearsi una rete di amici fidati come il chamacoco Gavilán, il commerciante irlandese Raymond Brennan e sua moglie, l’italiana Elsa Feresin, il medico argentino Aníbal Borda, ma i nemici sono molti di più, e pericolosi. Sono riconducibili a due categorie, che si fiancheggiano a vicenda: gli occidentali razzisti fautori della supremazia ariana - a partire dai fondatori della colonia Nueva Germania fino ai medici di stampo lombrosiano alla ricerca di tare genetiche -, i grandi fazendeiros e affaristi senza scrupoli che sfruttano a costo zero le risorse del territorio e la manodopera degli indios e non tollerano che qualcuno possa intromettersi. Ed è gente che fa sul serio, capace di reclutare feroci cacciatori di indios come Agripino “Satán” Aguirre.
Per mano di chi è morto Guido? Di questa gente - come ritiene la giornalista americana Lucy La Bure che a distanza di qualche anno indaga senza fare sconti a nessuno - o di indios ancora avvolti nel mistero, come i pitáyovai? E qui la scrittrice introduce un nuovo filo nell’ordito della sua trama: un filo d’oro brunito, lavorato dal tempo e dunque ancora più suggestivo, che vale a cucire una vecchia leggenda della val d’Ossola a un mito guaranì. Hanno qualcosa in comune, i minuscoli cucìtt che vivono nelle caverne della valle, e questi indios della selva paraguaya: con i loro piedi malformati e privi di dita, non lasciano impronte sul terreno. Avanzano silenziosi e imprevedibili, come la sorte. Nella storia di Guido vengono così a rappresentare l’alfa e l’omega: l’origine del desiderio mai sazio di esplorare e conoscere, il mistero che circonda la sua fine.