recensioni di Il gioco di Santa Oca

Lettera di presentazione al premio Strega, marzo 2019

di Luca Doninelli

«Le ragioni per cui mi sono deciso a questo passo, per me non abituale, sono sostanzialmente due. La prima è che Il gioco di Santa Oca è un libro molto bello e singolare, capace di offrire al lettore sia una storia esemplare, che celebra (come sempre fa, sopra o sottotraccia, la grande narrativa) la forza e la bellezza delle nostre esistenze individuali, l’inarrestabile energia che nasce dal nostro bisogno – spesso soffocato da mille Persuasori più o meno occulti – di essere i protagonisti della nostra vita, di non delegare a nessuno il nostro pensiero e la nostra presenza su questa terra; e insieme celebra la Memoria come grande alleata di questa necessità elementare. “Tutto cospira a tacere di noi” diceva Rilke nelle Elegie duinesi, ed è proprio così: si chiami clero, si chiamino social media, si chiami pensiero unico, si chiami identitarismo, c’è sempre qualcosa o qualcuno che vuole pensare al nostro posto. Il gioco di Santa Oca è un inno alla libertà di tutti colori che Vàclav Havel chiamava “i senza potere”. La seconda ragione sta nella lingua con la quale Pariani “mima” il mondo (siamo nel Seicento lombardo) che ci racconta: una lingua folle e visionaria, spesso esilarante, che coraggiosamente mescola codici diversi, una lingua dell’ignoranza incapace di nascondere le proprie perfidie e porta alla luce dialetto, ecclesiale, lingua giuridica, germanismi, ispanismi, francesismi con buffi ammiccamenti ad espressioni che sono, viceversa, del nostro tempo. Che è, poi, l’essenza – affermata fin dal tempo del Porta e poi giù, con Gadda, Testori, il Fo di Mistero buffo, Pagliarani e non cancellata ma solo nascosta in filigrana perfino dal Manzoni – della lingua lombarda, che tutto è tranne che gelosamente identitaria. Il nostro splendido nord è tale perché da sempre spalancato a ogni vento, grazie alle “mal vietate Alpi”, e non ha mai sopportato di autodefinirsi in confini culturali ristretti. Siamo insieme romani, cristiani, barbari e illuministi, fedeli perché eretici, eretici perché fedeli. Laura Pariani entra in questa scia con la brillantezza di cui solo chi è straniero al mondo è capace. E tale è Laura Pariani, per la quale mi permetto aggiungere una terza, personalissima motivazione. Questa eccellente scrittrice non ha ricevuto dalla cultura italiana nella misura in cui ha dato, sempre con generosità e senza fare calcoli (vizio che viceversa opprime molte menti brillanti del nostro Paese). Sarebbe giusto, a mio parere, restituirle qualcosa nella forma di un riconoscimento che merita abbondantemente.»

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Il gioco di Santa Oca - 27 febbraio 2019 su convenzionali.wordpress.com

di Gabriele Ottaviani

«Pipòt dorme, beata gioventù. Un respiro quasi infantile, nel sonno scompare l’ombrosità che lo accompagna costantemente quando veglia. Dorme da innocente, pensa Pùlvara. In qualche modo le ricorda il figlio che ha avuto in terra todesca: crepato a sette anni di certe placche grigie e fungose che gli avevano riempito la gola. Quanti bambini senza peccato erano morti quell’inverno. Le donne congiungevano le mani o si strappavano i capelli. Pùlvara sente le lagrime sgorgarle dagli occhi, come se il suo Jonas fosse morto adesso adesso. Il limite sottile tra la vita e la morte è ben poca cosa. Le tornano alla mente anche le volte in cui ha dormito con Bonaventura e il resto della banda in un vecchio essiccatoio per le castagne o nel torracchione di pietre nere al Fosso del Pan Perduto. Scoregge nell’aria fredda, bocche che respiravano rumorosamente, qualche armeggio di mano per gli sfoghi nel peccato solitario. A quel tempo spesso si addormentava al suono della voce di Bonaventura che raccontava del giardino di Santa Oca il cui premio attende alla fine di un lungo cammino chi non si dà per vinto. “Ah,” ridevano gli uomini della sò banda, “allora se ci arriviamo, diventiamo ricchi come il Re d’Ispagna e possiamo finalmente toglierci tutti gli sfizi che ci pare”… Ma Bonaventura spiegava che le ricchezze andavano distribuite ai più bisognosi: alle vedove, ai vecchi… Non c’era verso di fargli cambiare parere: sulla Giustizia e sulla ripartizione equa si faceva un punto d’onore che neanche un nobile franzé. Lo stesso riguardo alla questione del rubare nelle chiese.»

Cosceneggiatrice di Così ridevano di Gianni Amelio, aggiudicatosi meritatamente vari riconoscimenti fra cui quello alla cinquantacinquesima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, quella del millenovecentonovantotto, la seconda e ultima diretta da Felice Laudadio, che vide premiare dalla giuria presieduta da Ettore Scola anche Kusturica, Sean Penn, Catherine Deneuve e Niccolò Senni, pittrice, fumettista, autrice di teatro e narrativa dalla bacheca onusta, giustamente, di trofei, Laura Pariani, intellettuale e artista a tutto tondo, dalla voce stentorea e originale, lirica, vivida e profonda, dipinge con tinte brillanti e ritmo ammaliante, impreziosendo il tutto con una prosa credibile e immaginifica, la vicenda secentesca di un popolo in cerca di sé che si ribella alla protervia del potere, e quella di una donna che fintasi uomo si è unita alla compagine di Bonaventura Mangiaterra e a vent’anni di distanza, da cantastorie, ne narra le imprese e ne svela il mistero… Il gioco di Santa Oca, La Nave di Teseo: raffinato, elegante, allegorico, bellissimo sin dalla copertina.

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La Stampa, Tuttolibri, 16 marzo 2019

Per salvarti conta storie e travestiti da maschio

di Elena Masuelli

Nella Lombardia del ’600 una camminante narra la vita di un ribelle che con la sua banda difese il popolo dai soprusi
Se sai contare con la lingua sciolta, non sarai mai compietamente perduto». Pùlvara lo sa, la lingua sciolta è sempre stata la sua salvezza, e allora racconta, cammina per la brughiera, raduna gente, alza la voce e in cambio di «un tocco di pane nero» e di una scodella «di vinello asprigno» narra della Bella Parola di Bonaventura Mangiaterra e del suo manipolo di uomini, delle loro scorribande contro lo strapotere e le razzie di nobili e soldati nella Lombardia di metà Seicento, occupata dagli Spagnoli. Le voci della vecchia e cenciosa camminante e del carismatico capopopolo si alternano sugli stesso sentieri, a distanza di vent’anni l’una dell’altra, nel nuovo romanzo di Laura Pariani, Il gioco di Santa Oca.
La brughiera. Prati, cave e e pietraie, «cassìne» sparse, fieno da tagliare e vacche da accudire. Uomini, donne e bambini in balia di eserciti ed esattori, Conti e preti, ridotti a «mangiare radici e rape. Il corpo ignudo come vermicelli, la dura terra per letto». Le denunce insabbiate o inascoltate, che «per il pitòcco non c’è giustizia, ma solo la forca». Fino a quando qualcuno si ribella a un mondo distorto in cui subisce chi in quella terra ha sepolto i propri avi, la coltiva, la dovrebbe governare.
Per lungo tempo quel giovane dalla parlantina facile, era stato soltanto una leggenda, «un purpalério che affiorava nelle chiacchiere oziose tra ubriachi all’ostaria», una maledizione contro i soprusi: arriverà la banda di Bonaventura Mangiaterra, «allora cambierà il ballo». Insieme ai pitòcchi mal armati, dodici al principio, c’era stata anche lei, Pùlvara, non come «morósa» (Bonaventura non toccava le femmine e nemmeno i maschi, era un santo), ma travestita da uomo. Affascinata e trascinata da quel
modo di leggere e parlare di «Monsù Domineddio» e «Nossugnùr Padreterno», di una «Madama Giustizia» che è più «Ingiustizia» perché ascolta Scribi e Farisei, e la dà vinta ai ricchi senza curarsi delle lamentazioni dei poveri. Mangiaterra interpreta Bibbia e Vangeli, difende gli ultimi, li esorta a riprendersi ciò che gli è stato tolto, suscitando le ire e la dura reazione del governo e dell’Inquisizione spagnola, dei suoi luogotenenti e del Sant’Uffizio che, messo in campo un traditore, nell’ottobre del 1652, scatenano la durissima controffensiva. Ignari (e il lettore con loro) di chi sia veramente l’uomo che li ha messi in difficoltà. Vent’anni dopo Pùlvara, accompagnata per una parte del suo girovagare dal giovane vagabondo straniero Pipòt, ne insegue la memoria sulle tracce di un sogno e di una lupa, racconta e si tiene compagnia con il Gioco di Santa Oca, «numera quel che incontra e ne trae previsioni», tira i dadi su una tavola di caselle che vanno fino al 63, il Giardino di Santa Oca, destinazione
e premio per ì camminanti che hanno percorso «sta lagrimarumvàlle».

Dopo il distopico Di ferro e di acciaio, la Pariani torna a un’epoca già raccontata nel romanzo La spada e la luna, storia di formazione dello scrittore Garcilaso de la Vega soprannominato «El Inca», figlio naturale di un conquistatore spagnolo, e ne La signora dei porci, ambientato nella stessa infeconda e fredda terra di brughiera, nella nebbia odorosa di fatica e stalle. Crea una lingua che non c’è, un italiano popolare imbevuto di accenti antichi e dialetto, proverbi, burocrazia e religione, echi spagnoli e immagini, dà voce a erbére e cavallanti, serve e locandiere, pescatori e cavatori. E intorno a loro costruisce una originale storia di donne forti e anticonformiste che sanno ribellarsi, inseguendo giustizia e libertà.

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Scheda di recensione per la Biblioteca Civica Carlo Bonetta (Pavia), marzo 2019

Inattualità e grandezza di Laura Pariani

di Walter Minella

Forse un giorno gli storici della lingua procederanno a un accurato esame del linguaggio originale, personale, anzi unico, di Laura Pariani. E’ un italiano radicato nel dialetto lombardo, solo talvolta riprodotto sic et simpliciter ma che per lo più funge da elemento perturbatore e insieme arricchente rispetto alla norma linguistica, conducendoti a riflettere sulla parola italiana, a farla uscire dalla sua consuetudine logora, a vederla in una forma nuova e quasi, per così dire, ricreata, densa di risonanze e di sfumature. Questo italiano impregnato da tutti gli umori di una tradizione locale è spiazzante, difficile, talvolta anche per chi abbia conoscenza della radice linguistica lombarda - ma insieme affascinante, vivido e capace di attuare quell’effetto di straniamento che un’opera d’arte richiede.
L’uso espressionistico della lingua non è però soltanto un procedimento letterario, radicato nella linea lombarda della letteratura italiana che culmina in Gadda e in Testori. E’ anzitutto e soprattutto un segno della vicinanza dell’autrice ai suoi personaggi, cioè ai popolani della Valle del Ticino: gli umili, i poveri, gli oppressi. Allo stesso modo, in altri libri dell’autrice il riferimento al castigliano era funzionale alla rappresentazione del mondo degli emigrati italiani nell’Argentina tra fine dell’Ottocento e inizio del Novecento. Già da questo primo accenno risulteranno chiari alcuni motivi dell’ inattualità dell’opera della Pariani. La sua lingua è l’opposto della lingua corrente nel mercato editoriale italiano, una specie di omogeneizzato ‘televisivo’ insapore e scialbo, con forti influenze di un inglese imparaticcio e scolastico. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Limitiamoci alla considerazione che, se l’italiano viene banalizzato e, per così dire, ridotto da molti scrittori italiani contemporanei, il dialetto è quasi totalmente ignorato. Privilegiarlo come fonte di espressività e di testimonianze è decisamente ‘fuori moda’.
E poi, c’è la questione della semplicità, o meglio del semplicismo. In un paese, ma purtroppo dobbiamo dire in un mondo, abituato al ‘dominio contemporaneo del tweet semplificatore’, una lingua che invece imponga al lettore di soffermarsi sulle parole, per cosi dire di pesarle, è quanto meno complicata, difficile e già per questo sospetta: perché la complicazione è nemica del semplicismo facilone, che invece, come è noto, sarebbe ‘amico del popolo’. Il paradosso è che questa lingua della Pariani è veramente popolare, cioè è l’erede di una antica tradizione - il dialetto lombardo – che ormai sono rimasti in pochi (sempre meno) a conoscere e a parlare: pochissimi poi quelli che, oltre a conoscerlo perfettamente, conoscano altrettanto perfettamente la lingua e la cultura italiana, insieme a quella spagnola, come nel caso della Pariani.
Ma in questo romanzo non è in questione soltanto la lingua, che pure è così importante: è tutto un mondo di cultura popolare che viene recuperato dall’autrice. Perché il vero protagonista collettivo di questo romanzo storico, ambientato intorno alla metà del Seicento (tra il 1652 e il 1672) nella Valle del Ticino, nell’Alto Milanese, è il popolo lombardo, oppresso, poverissimo (anzi con i parametri di oggi diremmo miserabile), chiuso nelle sue ‘cassine’ o nei suoi paesini come in un mondo a parte, ignorante, per lo più analfabeta. Non c’è nella Pariani alcuna idealizzazione di questo popolo, ché anzi la povertà che l’autrice ritrae non è solo materiale ma anche psicologica e spirituale. L’autrice ne svela la dura ragione storica (l’oppressione, di classe e insieme spirituale, in una zona poco ospitale, la brughiera lombarda, funestata, intorno alla metà del Seicento, da guerre, pestilenze, incursioni e scorrerie) e ne rivela con pietà le radici di dolore e le forme di autodifesa: tra queste rientrano le tradizioni popolari più arcaiche, pagane. Perché questo popolo miserabile era anche portatore di una cultura antropologica autonoma, di cui erano rappresentanti le cosiddetto streghe, cioè le donne del popolo eredi di una sapienza antichissima (la conoscenza delle erbe, delle piante, degli animali) e di una visione magica del mondo, in cui elementi cristiani si fondevano con antichissime tradizioni popolari ‘pagane’. In questo sincretismo l’elemento formalmente dominante era il cristianesimo cattolico, che in questo romanzo viene rappresentato in uno dei suoi momenti più bassi, il periodo della Controriforma (il contrasto con la visione storica di Manzoni, il cui capolavoro è ambientato pressappoco nello stesso periodo e in una zona vicina, è implicito ed evidente). Come è noto, la Controriforma imponeva uno strettissimo controllo sulla coscienza dei villici, sostenuto dalla repressione della Santa Inquisizione e organicamente legato al potere della nobiltà terriera e dell’apparato statale. Alcune figure di preti (dal curato di campagna al cardinale) e di nobili (con il loro corteggio di servi e di funzionari statali) vengono disegnate in quest’opera con sarcasmo feroce. Eppure, nonostante tutto, qualcosa della radice più vera e autentica del cristianesimo risale fino ad alcuni elementi del popolo. Sarà un cristianesimo semplificato e naturalmente eretico, ma certo più vicino al messaggio originario di Gesù di quello proposto dal prete soprannominato nel romanzo Dicis-ma-non facis.
Il protagonista individuale del romanzo, il capobanda Bonaventura Mangiaterra costituisce l’espressione più autentica della ‘fame e sete di giustizia’, cioè di quella che potremmo chiamare la verità esistenziale del protagonista collettivo, il popolo. Per rappresentare il giovane eroe l’autrice ricorre allo stesso espediente narrativo – che però qui è anche un simbolo, oltre che un espediente – di Guimarães Rosa nel suo capolavoro Il grande sertão: non sveliamo l’enigma, lasciamo che siano i lettori a scoprirlo. ll controcanto di Bonaventura è la vecchia Pulvara, la ‘camminante’ che possiede il dono della parola che incanta e che, vent’anni dopo (1672), va alla ricerca pietosa dei particolari delle vicende a cui partecipò da giovane (il romanzo alterna capitoli ambientati nel 1652 ad altri ambientati nel 1672). Pulvara è anch’essa immersa nel mondo magico dei contadini: crede nelle coincidenze significative, pensa che gli avvenimenti possano essere pregni di valore numerico e che il senso dei numeri vada decifrato secondo le caselle del gioco di Santa Oca, viene guidata da una lupa nella ricerca del corpo di Bonaventura … C’è qui, forse, in questa sensibilità alle dimensioni della realtà che possiamo definire extrarazionali, una sintonia tra l’autrice e il suo personaggio. L’attenzione al cristianesimo, relativamente nuova rispetto al complesso della produzione della Pariani, era già emersa nel precedente libro della scrittrice, lo splendido romanzo distopico Di ferro e di acciaio. In quest’ultimo testo esiste, implicitamente, una dialettica - aperta - tra l’appassionata ricerca di giustizia del giovane Bonaventura e la smagata rassegnazione della vecchia Pulvara: “tutti trusciamo a sto mondo per nagotta … Noi siamo qui di passaggio. Chissà per dove” (p.268).

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Avvenire, 22 marzo 2019

Pariani e il fascino atavico del racconto orale

di Fulvio Panzeri

L’opera narrativa di Laura Pariani si è costruita nel tempo in modo ampio e corposo, a partire dagli anni Novanta, quando esordiva con la raccolta di racconti Di corno o d’oro, utilizzando una scrittura che è andata a lambire territori letterari della tradizione lombarda come quelli di Gadda e Testori, con una reinvenzione della lingua, che contamina l’italiano, la parlata dialettale, ricordi di memorie sudamericane. Si tratta di una vulgata che porta alla tradizione del racconto orale, alla forza che hanno le parole, non solo scritte, ma pronunciate, in una sorta di teatro “scarrozzante", declinando un dialogo interrogante tra tempo e storia, mondo dei vivi e realtà dei morti. Alcuni suoi romanzi in questo senso sono diventati dei veri e propri “capi d’opera", anche se non più ristampati da tempo, come nel caso di La signora dei porci del 1999 che è uno dei suoi libri migliori.
Dopo aver intrapreso altre strade e perlustrato diversi e contemporanei territori narrativi, legati alle ascendenze sudamericane della propria memoria, col nuovo romanzo la Pariani ritorna al tempo secentesco, a una lontana memoria manzoniana, alla lezione anche iconica dei Sacri Monti che ha scelto di condividere nella sua casa di Orta, scrivendo uno dei suoi romanzi di più forte impatto emozionale, dove l’impasto della sua lingua diventa voce degli umili, di coloro che attraversano la vita, senza storia e senza memoria e qui la ritrovano, a distanza di secoli, riportandoci a una “pietas” che è intima alla vicende della scrittura. Infatti è come se la Pariani assumesse su di sé il carico delle vicende che racconta, scrivendo per dare la parola che agli umili è stata negata dalla storia, operando un lavoro documentario di ricerca che serve all’invenzione per poter essere più dentro la terra delle brughiere dell’Alta Lombardia, tra Busto Grande, il lago Varese, le cascine sperdute e i piccoli paesi, come Malnisciola o la Terra del Castano.
È qui che si svolgono i fatti, raccontati dalla Pariani, in due tempi diversi, caratterizzati ciascuno da una figura che diventa corpo e voce, una scelta assai felice dal punto di vista narrativo, in quanto permette alla Pariani di procedere in modo da disvelare e progressivamente ampliare i caratteri delle due figure principali. La prima è quella di Bonaventura Mangiaterra, un rivoltoso che racconta le pagine del Vangelo a modo suo, per dare speranza alla povera gente, che, nel mezzo del Seicento lombardo, è oppressa da potere, carestie e pestilenze: figura misteriosa, «strano giovane, con un gran mistero negli occhi», che riesce a creare intorno a sé una banda di "pitòcch" che diventa tanto numerosa, quanto allarmante per chi detiene il potere, gli Inquisitori e il Sant’Uffizio, gli Spagnoli e i nobili della zona che infiltrano sul territorio spie vili e insidiose e schierano infine un esercito che ponga fine alle scorribande di Bonaventura, uno dei pochi a saper leggere, allora, in quelle terre, e di coloro che hanno scelto di essergli fedeli.
Siamo nell’autunno del 1652. Vent’anni dopo, troviamo una donna, Pùlvara, che attraversa queste brughiere e si fa «camminante» e «cantastorie» di quella che è la memoria di Bonaventura, attraverso il racconto che fa, nelle sperdute cascine, delle sue storie, lei che lo ha conosciuto e ascoltato, che ha fatto parte della sua banda, spogliata della sua identità femminile, travestita da uomo, per poter essere al pari tra i rivoltosi. La sua figura illumina e amplifica quella di Bonaventura, lei che sente quanto la sua vita sia stata «soltanto azione, andirivieni e avventura in cui salvar la pelle», un bagaglio d’esperienza che l’ha resa forte, anche se «spesso ha sentito la mancanza di un momento di vera riflessione» e si domanda che cosa abbia significato «camminare per anni così e cosà senza un senso di radici». La risposta è nuda, implacabile: «È la pura solitudine...». Sa però che questo è ciò che ha scelto, perché «le mete sono inesorabili e il destino dirige i nostri passi. Non il destino che sta in attesa su una pietra o a un crocicchio, ma quello che ignoto vive nella profondità di ogni cuore. È parte di noi stessi anche se non lo sappiamo». La forza delle parole attraversa in modo trasversale questo romanzo: è quella della favola dell’Oca che accompagna Pùlvara con «parole una dietro l’altra che si snocciolano in litania mentre si cammina». E ancora quelle che sono vita, tanto che le «offrono tocco di pane nero solo per sentirsi narrare storie», perché «a questa gente di bmghiera che cosa resterebbe senza le storie dei raccontatori?».
Il potere della parola è al centro anche di un racconto lungo, tra i più intensi della Pariani, pubblicato vent’anni fa dall’editore Casagrande, in Svizzera, Il paese delle vocali, ora riedito (pagine 104, euro 12,50), con una postfazione di Arnaldo Colasanti che lo definisce, giustamente, «un piccolo capolavoro», da rileggere o da riscoprire. È ambientato in un tempo storico più vicino, alla fine dell’Ottocento, protagonista una giovane e appassionata maestra che sceglie di insegnare a Malnisciola, sperduto paese della Lombardia, dovendo affrontare, miserie e pregiudizi che riesce a superare grazie al fascino di poter far conoscere le vocali ai bambini, per portarli a scoprire il senso profondo delle parole, il loro sacro valore.

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Il Sole 24 Ore, 21 aprile 2019

Pitòcchi rivoluzionari nei boschi di Busto Arsizio

di Gino Ruozzi

«La vita è terribile e fosca, e le donne ne portano il peso maggiore». Questo lapidario aforisma è il filo rosso del nuovo romanzo di Laura Pariani. Ambientato in due periodi paralleli, nell'ottobre del 1652 e del 1672, il libro racconta il tentativo di rivolta sociale e sessuale (nelle campagne lombarde tra Busto Arsizio e il Ticino) di un gruppo di contadini contro i signori locali e le potenti truppe d’occupazione spagnole. Se si fa un piccolo passo indietro, vent’anni prima siamo nell’universo dei Promessi sposi di Manzoni, a cui Il gioco di Santa Oca allude spesso. Boschi, paludi, sabbie mobili, calamità naturali e soprattutto umane, streghe e untori, il mondo è quello sconvolto e senza idìllio della «vigna» di Renzo e della terribile «colonna infame», della selva dantesca variamente rivisitata nei precedenti romanzi La Signora dei porci (1999) e Milano è una selva oscura (2010). Società fondata su regole che sembrano ineluttabili e immodificabili, supremazie inscalfibili sostenute e difese da una provvidenza assai più terrena che divina.

A questo stato di cose si ribella il giovane Bonaventura Mangiaterra, che contro l’incredulità e lo scetticismo della maggioranza forma un’agguerrita banda di contadini disperati e orgogliosi, «gente di brughiera che sapeva bene che la vita l’è un gran combattimento, in cui vince chi la dura». Come un rinato Robin Hood, Mangiaterra proclama una nuova «buona novella» evangelica, «la Bella Parola» che conquista «come miele» e reclama pronta giustizia («la mano che dà da bere e da mangiare vale più della preghiera che risuona in migliaia di chiese»). I «pitòcchi» sposano l’utopia e cercano di ribaltare la propria disgraziata condizione, si oppongono alla crudeltà dell’indigenza, della sopraffazione, dell’impunità, delle armi, dell'orrenda «morte per acqua».

A narrare l'eroica e sfortunata storia dei banditi di Bonaventura, che ricordano pure tanti «banditi» della nostra Resistenza, è Pùlvara la «camminante»; ventenne aveva partecipato alle loro imprese e ora vuole tenerne viva la memoria con una fedele quanto mitica «raccontazione» e con il gioco di Santa Oca, con cui ripercorre le tappe della rivolta e il suo sciagurato destino, sperando che prima o poi la sorte possa cambiare verso. L’ansia di giustizia passa per il valore persuasivo della parola («se sai contare con la lingua sciolta, non sarai mai completamente perduto») e per il modello di riscatto e di fallimento di Giovanna d’Arco: la santità condannata e messa al rogo dall’arroganza e dalla cecità del potere, che non ha altro scopo che la perpetuazione di se stesso.

Il romanzo è composto di tanti quadri e microracconti, vite brevi di sconfitti e dimenticati dalla storia, con paesaggi prossimi alle fantasie di Zavattini e Pederiali, i timbri etici di Vassalli. Lo stile è realistico e insieme visionario, nomi e soprannomi di persona concretamente evocativi (Simùn Gamb-avèrt, Giosafatte Vulpe, Monsù Dicis-ma-non-facis, Ciapparàtt), la narrazione proverbiale e sentenziosa («non entri tra fuso e rocca chi non vuole essere filato»; «il pane del padrone ha sette croste e un crostone»; «le acque chete son quelle che più immollano»; «la scarsità muove il mondo»). La lingua sboccata e maccheronica, farsesca e sdegnata, truce e innocente si contrappone a quella elitaria, algida e normativa del potere, nella scia di Cecco d’Ascoli e François Villlon, Teofilo Folengo e Luigi Malerba.

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La lettura, 28 aprile 2019

Il sogno del ribelle e della sua cantastorie

di Ermanno Paccagnini

A vent’anni di distanza dalle cinquecentesche storie della Signora dei porci, con II gioco di Santa Oca Laura Pariani toma alle «terre volpine», al mondo «sarvatico» della Brughiera Granda, che si distende tra Busto Grande e il Tesìn, ruotando i personaggi tra Magnago, Castano, Buscate, Cassina Paregnana, Tornavento e la Malnisciola.

Vent’anni proprio come quelli che separano i due tempi nei quali è articolato Il gioco di Santa Oca: il 1652 delle vicende centrali vede protagonista quel mondo di «pitòcch» che nel «purparlério» da osteria favoleggia che «un giorno o l’altro verrà anche qui la banda del Mangiaterra e allora cambierà il ballo!»; sogno che si materializza nella figura di Bonaventura Mangìaterra, «strano giovane, con un gran mistero negli'ocehi», che all’uso delle armi preferisce la convinzione della parola. L’ottobre 1672 vede protagonista Pùlvara, sola superstite di quei lontani avvenimenti, «spinta a tornare nella brughiera degli incanti» da un sogno ricorrente, che si svela come comando di «trovare Bonaventura», cui deve la vita; sogno che nella fase conclusiva assume la forma visiva di una lupa.

Due tempi che si alternano integrandosi. Nel primo c’è in primo piano il mondo povero di genti «che dalla nascita zappano, spaccano legna, fanno carbone; che parlan poco e poco pensano, oltre al pane e alla minestra da mettere in tavola la sera», per le quali «non c’è giustizia, solo la forca»; alle quali Bonaventura suggerisce «che sarebbe ora di dare una raddrizzata a sto mondo che va alla rovescia». Un auspicio che diviene realtà grazie alla Bella Parola del ribelle Bonaventura e alla sua banda di iniziali dodici pitocchi male armati, tra i quali però si annida quel Giuda che segnerà la fine del sogno di giustizia del Bonaventura-Cristo. E poi il tempo di Pùlvara, che al nome al maschile di allora, Curadìn detta Poo, ha sostituito quello della «polvere» che calpesta nel suo «camminare per anni così e cosà senza senso di radici» nel segno di una «pura solitudine», salvo che per il tratto in cui si accompagna col piccolo cencioso Pipòt «che parla come un ostrogoto» ma che si svela gran disegnatore.

Una Pùlvara che a quelle genti che incontra e alle quali non restano che le storie dei raccontatori, dispensa vicende del passato ricorrendo alle parabole di Bonaventura, ottenendone qua e là «un tocco di pane nero», una minestra calda e una scodella di «vinello asprigno»; e traendo previsioni interpretando numericamente i vari incontri secondo le caselle del Gioco dell’Oca, che si chiudono alla 63 col Giardino di Santa Oca.
Un procedere speculare: con andamento lineare nella prospettiva memoriale interna quello di Pùlvara nel suo graduale disvelarsi quale personaggio di allora e vicinissimo a Bonaventura; e andamento concentrico nella sua diacronia quello di vent’anni prima, gestito con prospettiva esterna in un girotondo narrativo di voci che si trovano per gran parte a rispondere a una indagine condotta subdolamente da Giosafatte Vul- pe, spia del Sant’Uffizio «che vuol sapere vita-morte-miracoli della gente di brughiera».

Voci di cavatori, carbonai, canapine, cavallanti, carradori, serve cuciniere e locandiere, erbére, studenti, preti, funzionari, pescatori e sfrosatori. Il tutto a conferire un variegato tono affabulatorio ricco di sfumature e poggiante su quel «dialetto della brughiera» — da Delio Tessa definito «milanès furestee» — a partire dal quale Laura Pariani prosegue la sua reinvenzione della lingua nella tradizione più propriamente lombarda da Porta e Manzoni al Mistero buffo di Fo, iniziata già con i racconti di Di corno o d'oro (qui spiegati come «luogo misterioso di cui parlano le favole: la porta dei sogni, di corno o d’oro») ove mescolava lo spagnolo, qui a sua volta presente unitamente a germanismi, francesismi, espressioni curiali e giuridiche, oltre a una espressività mentale affidata a proverbi e modi di dire, nelle quali si depositano anche preconcetti quali la nomea di «strìe», con conseguenti storie di inaudite crudeltà, su cui era invece costruita La Signora dei porci.

A questo — pur in una storia tutta nuova e differentemente gestita anche narrativamente — si legano alcune costanti, quali la rivisitazione di passi biblici qui tradotti in «Vangelo dei poveri secondum Bonaventuram» riraccontato da Pùlvara; o il mondo inquisitoriale, pur se qui non di matrice ereticale ma sociale, a difesa d’una composita classe sopraffattrice (nobili, funzionari, esattori, clero, si vada dal parroco soprannominato Dicis-ma-non-facis al lussurioso Infante Cardinale) d’un universo umano che porta ancora i segni della pestilenza e delle scorrerie francesi, imperiali, spagnole e anche nostrane, conseguenti alla battaglia di Tornavento. Una «lagrimarumvàlle» dimenticata da Dio cui la Pariani dona una lingua che si carica del dolore di quel mondo, ma pure delle sue speranze, che si può recepire nel tono di una addolorata ma insieme affettuosa malinconia.

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Leggere donna n. 184, settembre-ottobre

Il gioco di Santa Oca

di Federica Pastorino

Se dovessimo riassumere con un segno grafico questo romanzo, esso avrebbe la forma di una duplice spirale: entrambe convergono verso un centro, ma con andamento opposto.
Con Pùlvara, una camminante cantastorie, nell’ottobre del 1672, ci incamminiamo lungo un sentiero nella valle del Ticino, dove un sogno l’ha spinta a tornare dopo vent’anni.
Che cos’era avvenuto vent’anni prima lo scopriamo, invece, mano a mano che ascoltiamo le testimonianze che Giosafatte Vulpe raccoglie per conto del Vicario del Sant’Uffizio.
Sia Pùlvara sia Giosafatte sono in cerca di Bonaventura Mangiaterra, un rivoltoso che nelle terre tra Magnàgh e Busto Grande aveva organizzato una banda armata per far guerra agli sciùri, un sobillatore che faceva presa nel cuore degli zotici con la Bella Parola, che sosteneva la povertà della Chiesa e la giustezza della rivolta, giovane e di bell’aspetto, che però non si accostava né alle donne né agli uomini, insomma un santo rivoluzionario.
Lungo questo duplice sentiero narrativo ci muoviamo con lentezza e circospezione, perché la lingua è torbida e densa come la nebbia di quelle pianure, e ci costringe a fermarci, a rileggere o leggere ad alta voce per ascoltare il suono di parole ed espressioni arcaiche, tesori di una cultura popolare perduta tra le pieghe del tempo. È attraverso questa lingua, un italiano in fieri innestato di dialettalismi lombardi, che la scrittrice ci catapulta in quel mondo della brughiera lombarda fatto di povertà materiale e spirituale, chiuso e ignorante, dove la vita è scandita da carestie, pestilenze e battaglie, e i poveracci soccombono sotto le angherie del ricco e potente, o prepotente, di turno.
Sebbene tempi e ambientazione siano contigui al grande romanzo manzoniano, di certo Laura Pariani non ha sciacquato i suoi panni in Arno, piuttosto nel Tesín, dalle cui acque ripesca le storie delle donne ivi annegate. Donne o meglio streghe, ché riconoscere le une dalle altre è spesso difficile, come già avevamo appreso nel romanzo La signora dei porci, edito da Rizzoli nel 1999 e oggi introvabile, di cui Il gioco di Santa Oca può considerarsi il degno seguito.
Anche con questo romanzo, dove però predominano i personaggi maschili, Laura Pariani ci spinge a riflettere sulle donne, di quei tempi e di oggi, sul destino che il nascere femmina porta con sé, perché “ogni tusa la nâss cunt ul sò cavagnö”.  Se distinguersi dalla massa per i capelli rossi, gli occhi di un azzurro intenso, o la semplice bellezza era pericoloso, ancor più rischioso era conoscere ciò che per altri era magia, come le proprietà delle erbe per farne medicine. Ma qual era, e forse qual è ancora oggi, il segno che, più di ogni altro, fa di una donna una strega?
La risposta ovviamente sta nel mistero che domina Il gioco di Santa Oca, che Laura Pariani ha inoltre dotato di una struttura narrativa ingegnosamente calibrata: proprio a metà del romanzo le due spirali narrative s’intersecano e tra i seguaci di Bonaventura incontriamo Pùlvara, scoprendo così il segreto che aveva unito la camminante al ribelle.

Ma, se giocassimo a trovare indizi anche in precedenti romanzi di Laura Pariani, premonitore suonerebbe il finale dell’immeritatamente poco conosciuto Caddi e rimase la mia carne sola (Effigie, 2017), che narra gli ultimi giorni di un rivoluzionario santificato.

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