Corriere della Sera, 21 maggio 1995
Nel paese degli «strascé»
di Giorgio De Rienzo
E’ un libro davvero singolare questo di Laura Pariani. Soprattutto nella struttura, che compone armonicamente una serie di frammenti. C’è una sorta di fiaba che è il filo a cui si collegano nove racconti: è la fiaba di una bambina che spia un Tògn strascé mentre baratta le sue merci con donne di paese, che guarda affascinata tutto ciò che è "consumato", che "corteggia" con il pensiero "la vecchiaia degli oggetti".
La bimba sogna un paese lontano "dove vivono gli strascé", dove tutto si conserva e ha libertà, dove non si soffoca nel circolo stretto dei "divieti", dove gli affetti e i desideri non marciscono nel chiuso di una morale fatta di regole non comprese. Ma insieme la bimba registra la dolorosa separazione da una madre disattenta e diafana, senza carne, senza amore: irraggiungibile nel proprio altrove.
Lo stesso tema di un difficile rapporto tra madre e figlia si ritrova nel racconto centrale, organizzato in un collage di spezzoni sovrapposti, dove madre e figlia narrano insieme una reciproca infedeltà per distrazione, una separazione per pigrizia, un’irresolutezza nell’intreccio caotico di percorsi indefiniti, che scandiscono i ritmi delle loro storie "nel guazzabuglio del detto e del non detto". Laura Pariani è raffinata scrittrice nel riproporre un tema troppo visitato nella nostra ultima letteratura. Rivisita il tema della condizione femminile soprattutto nel momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Lo studia con un distacco lirico che risolve in toni di elegia persino la violenza di una storia di incesto e stupro.
Lo sfondo della riflessione è che tutti corriamo per niente e "le cose scivolano dalla terra all’acqua e da questa poi risalgono per scomparire definitivamente nei fuochi dell’aria". Alla donna-bambina è assegnato il compito di fermare la sciocca corsa, di trasformare la crudezza e l’inutilità del vivere nella dolcezza di un forte e vero sentimento: di ricomporre i frammenti sparpagliati della realtà, attenti alla possibilità del sogno. Ma l’originalità non si limita a questa predicazione, si incarna in una scrittura che amalgama ciò che è eterogeneo, si affida alla composizione di una salda struttura: i racconti sono architettati in modo che gli spezzoni d’ogni storia appaiono riuniti dallo sguardo narrativo, che si organizza in un sapiente spostamento del punto di vista, che si fa, con il mutare della prospettiva, motore di una ricomposizione della verità narrata.
Laura Pariani, Il pettine
di Marina Pivetta
In questa seconda raccolta di Laura Pariani, dopo "Di corno e d'oro" del 1993, i capitoletti di una memoria d'infanzia - narrazione in crescendo che si potrebbe intitolare To'gn strasce' e la Bambina Cattiva - si alternano sia ai tre veri e propri racconti di apertura e di chiusura, datati per un rimando alla Grande Storia ma come senza tempo; sia ai ricordi-riflessioni di genere autobiografico della parte centrale del libro. Ancora dunque storia di "po'eri balabiótti" piccole, a margine, costruite su figure femminili di rassegnazione e di pena; adulte o ragazze di cui è emblema feroce (nel "Pettine", il racconto che apre la raccolta) la Pia: che la possessivita' disperata e selvaggia di "sopa'" trasforma ne "ul Piu". Affiora dunque per lacerti in questa raccolta, come nella precedente, la storia di un passato di "vinti" che trova parola solo nell'immaginazione letteraria; e qui e' parola intonata verosimilmente, secondo la cadenza dialettale delle brughiere dell'alto milanese. Ma c'e' anche - ed e' parte consistente - l'"appello irresistibile dei ricordi" individuali: per i quali la parola c'e', ma"mai quella giusta, per l'intraducibilita' della vita in racconto", dice Pariani. E le voci allora si sdoppiano, o si triplicano?, in "Di madre in figlia", che dice "il chiuso di un rapporto da cui si tenta di fuggire", ma anche "quanto di lei abita ancora nei miei pensieri"; che riflette sulla incomunicabilita' e insieme sull'identificazione, su come tutto si ripeta, ma ci si capisca solo alla fine. Come in una coazione a soffrire. "Perche' tutto questo soffrire?" Si chiede la vecchia Dela'ida in "Carne che cala", il racconto di chiusura. E il tema del dolore e' motivo unificante di questa raccolta. Insieme al tema del passato. Che e' "esattamente come il presente, un tempo atroce, o splendido, o brutale o, semplicemente, qualunque".
Tuttolibri - La Stampa, 1 luglio 1995
Le donne contro di Laura Pariani
Il pettine, storie fra il Seicento e oggi
di Lorenzo Mondo
Laura Pariani conferma con questo libro di racconti, Il pettine (due anni fa ci aveva già colpito il titolo dell’esordio, Di corno e d’oro) di possedere le qualità di una scrittrice vera. Il suo punto di partenza sembra essere un richiamo ancestrale, di sangue e di terra (è nata nell’arsiccia piana lombarda di Busto), che proietta anche più avanti, sui giorni a venire; una luce cupa. Non manca nella rappresentazione dei tempi andati una curiosità di tipo storico e antropologico li proverbi, le filastrocche, gli oggetti d’epoca) che resta però pienamente assorbita dall’immaginazione e dal progetto narrativo. Sono intanto storie in cui si esprime la natura, la vocazione, il destino della condizione femminile: segmentate dalla storia parallela, in più capitoli, di una bambina che sogna di uscire dal ristretto ambiente famigliare, dal tedioso perbenismo borghese. E’ incantata dal passaggio dello straccivendolo, la vita randagia, i miserabili tesori accumulati sul carro: "il rotto, il consumato, il fuori uso - una copertina di carta logora, una scarpa scompagnala. un piattino senza tazzina - la fa sognare con un odore di mondi lontani". E l’esito drammatico della sua fuga verso una favoleggiata stazione di Astanovo segnerà di sconforto l’intero percorso del libro, Che si svolge cronologicamente tra il Seicento e i nostri giorni, per riavvolgersi nel capitolo finale sull’Ottocento, sui ricordi e le smemoratezze di una contadina decrepita che, a guisa di sibilla, rivela un’aspra sapienza del vivere, una disillusa moralità.
Il racconto più riuscito è "il pettine", per l’invenzione e la sapiente orchestrazione del tema, per il ricorso a una lingua ad alto voltaggio dialettale che non si risolve in pura mimesi ma affonda, con risultati di forte espressività, nelle viscere e nei sentimenti di una gente perduta. Il «Pìu» è una ragazza che ha avuto la madre violentata e massacrata da una banda di soldati taglieggiatori. Nasce da. quel lutto l’insania dei padre selvaggio che vuole trasformarla in uomo: le taglia i capelli, le stringe il seno, le cambia il nome, mortifica con efferatezza ogni cedimento alla sua natura di donna, Ma la femminilità resiste sotto gli abiti e le costrizioni erompe nell’incontro amoroso con un altro soldato di passo, il «piemontese». Quando il padre lo ammazza, il «Piu» gli ravvierà i capelli con il suo pettine custodito gelosamente. La Pariani interviene con sommesso controcanto, da coro a voce sola, ad aiutare l’espressione di sentimenti che faticano ad esprimersi compiutamente oltre il gesto, il raggomitolarsi muto davanti alle cadenze del soffrire.
Storie di donne, dicevo. Nel 1915 (Laura Pariani ama imprimere queste unghiate, queste «orecchie» sul libro del tempo) un’altra ragazza, mentre lavora nei campi, rischia di essere investita da un aeroplano che cerca l’atterraggio di fortuna. Al di là dei fastidi che le procura la commissione d’inchiesta (le rimproverano ottusamente di non essersi spostata e di avere causato la morte del pilota, sacrificatosi per salvarla) conta il ricordo di quel giovane caduto, della mano bianca pendula dalla barella. Le capita di accarezzarla, dolcemente, in sogno. Più avanti, accompagneremo in Argentina la protagonista cangiante dei racconti, va a conoscere il nonno anarchico emigrato durante il fascismo; a innamorarsi di una fedeltà istintiva, di una irriducibilità povera e disarmata, che avrà il suo peso per la nipote nell’imminente Sessantotto. Altrove, una giovane donna discorre al cimitero con il suo uomo che è caduto sotto i colpi della polizia durante una sommossa di strada. Ci sono stati errori, ma anche speranze alte e pulite, per questo vorrebbe che il morto potesse ricordarsi di lei, luminarIa dal "sospetto tormentoso che ogni mia esperienza di vita sia in tutto simile all’effimero passaggio di una stella cadente in una lontana notte estiva". E il conclusivo sapore di cenere si confonde con quello della Dalàida (“vecchia e fiacca come le tette delle mònighe”) che, dopo essere stata sfiorata da tutti i rivolgimenti del gran secolo, si ritrova su una seggiola; nell’aia di una cascina ad aspettare, la morte ("che quando la rlva si deve vèrvi l’usc, sa la gh’a la creanza da dumandà cumpermesso. Se no niente").
La voglia di vedere il mondo l’incontro con il "piemontese", l’aeroplano, l’anarchico in Patagonia, il ragazzo del «movimento»: sono scelte e momenti nei quali si afferma una idea di femminilità inquieta, fantastica ed insieme volitiva, scontrosa e tenera inarresa davanti ai mancati risarcimenti della storia e della sorte. Sempre dietro la spinta degli umori terresti che dicevo, di un passato contadino popolaresco, già capace di svelare il presente, di insegnare alla lingua scritta movenze rapide e vivide. Non per niente sono quelli i racconti che spiccano.
di M. V. Vittori
L'angosciato interrogativo di Eschilo: "Chi potrà mai dalle nostre case scacciare il seme del dolore?" posto come epigrafe al racconto "Di madre in figlia" potrebbe bene intonarsi anche alle altre storie narrate da Laura Pariani: proprio come alle eroine delle tragedie greche, Cassandra, Antigone, Giocasta, alle protagoniste femminili s'addicono dolore, angoscia, lutto.Diverse le collocazioni temporali: nel pieno di una guerra tra francesi e spagnoli nel 1646, tra l'avventura napoleonica e le battaglie risorgimentali, durante la prima guerra mondiale, in quegli anni sessanta in bilico tra repressione e ribellione, negli anni ottanta che hanno voluto dimenticare troppo in fretta: ma sorelle, tra loro, le storie. Trovano il loro posto nella cornice di un'attrazione che si dipana, lenta e velenosa, tra una bambina immaginosa e inquieta e un misterioso straccivendolo, e raccontano, anch'esse, di attrazioni ineludibili e mortali, di abbandoni e sofferenze, di ambigui labirinti d'orrore e incanto in cui è facile perdersi. Alle donne è dunque demandato il compito di riassumere quel "guazzabuglio di inganni, autoinganni e disinganni" che è la vita: di madre in figlia, con l'ingombrante eredità di carne e di sangue che si riverbera perfino nei tramonti e nei romanzi, com'è ben descritto in "Amapola"; con un strascico ininterrotto d'incomprensioni e di rancori, com'è raccontato nell'amara storia di Carlina e Antonella; col destino di vittima sacrificale che spesso la famiglia e la storia in feroce alleanza si sono incaricate di attuare, com'è rappresentato attraverso le vicende della vecchia Delàida e, in modo particolarmente intenso e struggente, attraverso il Pìu, fuscello nel vento di una guerra orrenda, che perde sua madre e poi, a opera di un padre reso folle dal dolore, la sua femminilità e l'uomo che, nonostante tutto, l'aveva amata.Delle storie di queste donne, rese con un ritmo teso, battuto e con un impasto lessicale di rara efficacia in cui s'accordano la saporosa, ruvidezza del dialetto e riferimento squisitamente letterari, restano immagini forti: il pipistrello nero e metallico che appare alla Guerina, fosco involucro dell'"àngiul Gabrièl", lo spazio immenso della Patagonia che è, per l'adolescente, respiro di libertà, il sorriso "arcangelico e balossètto" del Grande Lupo, incarnazione, da sempre del proibito e, soprattutto, un pettine. Proprio il pettine che era stato accattivante regalo di un rigattiere ambulante al Pìu e da lei pietosamente usato per ravviare i capelli del suo povero piamuntés morto, ora passa - incredibile eredità - nelle mani di quella bambina sventata, incantata - povera lei - dai Grande Lupo che si è fatto, di nuovo, straccivendolo.