recensioni di La valle delle donne lupo

Il Corriere della sera, venerdì 21 ottobre 2011

Le donne «balenghe» che fanno paura
Il nuovo romanzo di Laura Pariani

di Ermanno Paccagnini

Una costante e un ritorno, nel nuovo romanzo di Laura Pariani, La valle delle donne lupo (Einaudi, pp. 250, € 19,50). Insieme ad alcune nuove soluzioni stilistiche. La costante, innanzitutto: rappresentata, dopo le parentesi di Dio non ama i bambini (2007) e Milano è una selva oscura (2009), dalla ritrovata centralità dell’universo femminile. Quanto al ritorno, si presenta nei modi della testimonialità propria d’una voce femminile, quanto a tipologia narrativa, come in Quando Dio ballava il tango (2002); e del riaffacciarsi d’un universo ricco di ancestralità, come nella Signora dei porci (1999), ma trasferita dal XVI secolo al nostro.

La vicenda che vede protagonista come personaggio e narratrice Fenìsia C. si sviluppa tra il 1928 e il 2007 nelle valli dell’alto Piemonte. Una storia a un tempo personale e d’un piccolo universo in cui grandi e piccini coltivano segreti e misteri, emblematizzato dall’autrice nel Paese Piccolo di montagna dove la vecchia Fenìsia vive tutta sola, custode del cimitero da sempre accudito dalla sua famiglia, col suo richiamo all’inevitabile verità della morte, salvo che intervenga la memoria. Una memoria che racconta la graduale morte d’una cultura, andata scemando con la perdita di sentimento da parte della gente; per la povertà da un lato, e le illusioni della modernità dall’altro. Un mondo storicamente chiuso, accidentalmente sfiorato nella sua quotidianità dalla Grande Storia solo per sottrarre beni e vite. Un mondo in cui è «sfortuna nascere femmine» e il dolore è l’unica verità; in cui il diverso, il «balengo», ossia colui che difende una propria identità passa da «pecora smarrita» alla assunzione di forme lupesche quando per la comunità rappresenta il pericolo. E La valle delle donne lupo è appunto una storia di balenghe, narrata dalla balenga Fenìsia, partendo proprio da quel «prato delle balenghe» in cui venivano interrate queste «diverse», spesso nel passato con la nomea di strie, indegne di sepoltura in un cimitero.

Una Fenìsia che lascia quel Paese Piccolo solo per una stagione da mondina e quattro anni da internata in collegio per aver difeso la cuginetta Grisa dalla violenza del padre Biâs, per questo a sua volta spedita in manicomio; che ha alle spalle una fregatura matrimoniale; che ha appreso dalla nonna Malvina i segreti delle erbe, e per questo ricercata come «sanatrice». Una Fenìsia che è la memoria che fa rivivere le cose, ripopolando quell’universo di personaggi, alcuni davvero singolari (Malvina; la Grisa dalla «sprudentissima passione per tutto ciò che è meccanico» tornata a casa per la legge Basaglia; lo zio Martino custode del cimitero; il Biâs; alcune delle tante piccole figure), quando in tre pomeriggi del 2006 si concede al registratore di Laura, la «sciura» lombarda che raccoglie «le tradizioni, le leggende della montagna, le storie di una volta» e ha individuato in lei «la memoria di questi posti».

E si situa proprio su questo versante la novità stilistica della Pariani: perché il racconto si sviluppa in diffuse risposte ad essenziali domande passando dal registratore alla pagina attraverso un procedimento trascrittivo che opera una sorta di andirivieni tra prospettiva interna al personaggio e mediazione esterna più o meno poggiante su Fenìsia. Il racconto di Fenìsia è dato cioè ora come oggettivato, ora riprodotto nella forma d’un indiretto libero, conservando in entrambi una dizione che spesso si alimenta d’un «purpurrì di dialetto e italiano» (una parlata prossima al basso Ticino e all’alto milanese, proprio dell’autrice, e da lei al solito ben gestita). Un racconto di dolori e sopraffazioni, che si amplia nelle storie che Fenìsia racconta, aventi quale matrice le ricerche della stessa Pariani e l’archivio delle testimonianze orali di Cesare Bermani. Un accumulo di proverbi, storie e leggende in cui avverti il senso d’un tale attaccamento da non potertene privare. Storie che potrebbero vivere da sé (come quella di Anna, pagine 194-200), ma che così danno un’impressione da «antologia». Un di fuori che smussa la preminente forza della voce di Fenìsia. E del suo sguardo che sa leggere «le verità che si nascondono sotto la pelle degli altri».


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La Stampa, Tuttolibri, sabato 19 novembre 2011

 

Un mondo ancestrale (e ribelle) cancellato dalla modernità
Pariani, nostra Signora delle donne lupo

di Lorenzo Mondo

Fin dal titolo del suo nuovo romanzo, La valle delle donne lupo, Laura Pariani lascia intuire di essere tornata, dopo qualche diversivo, a uno dei temi centrali della sua narrativa. E’ l’esplorazione del mondo femminile, evocato, con passione antropologica, in ambienti chiusi e marginali che ne fanno risaltare la peculiarità. Ma insolita è la struttura di questo libro, la cornice che ne racchiude la storia. Una ricercatrice di nome Laura, armata di registratore, sale a un borgo sperduto della montagna piemontese per intervistare la sola donna rimasta lassù. La vecchia Fenìsia, nata nel 1928, è la custode di un mondo ancestrale cancellato dalla modernità: non a caso vigila sul cimitero che da sempre è stato cura della sua famiglia.
Gli antichi mestieri, le avare risorse, i costumi dettati da una cultura primitiva, la confidenza con la natura, rivivono nelle risposte espresse direttamente o parafrasate, “tradotte”, dall’interlocutrice.
Il filo che conferisce unità alla dovizia di aneddoti e vicende è il tenace affetto di Fenìsia per la cugina Grisa. E’ una ragazza stralunata che un giorno si è persa nel bosco ed è stata ritrovata nella tana di una lupa: ha succhiato quel latte e ne ha ricevuto una specie di investitura. E’ la ribellione ai soprusi di un padre violento, che la porta a essere chiusa in un manicomio (ne uscirà soltanto con la legge Basaglia). Mentre Fenìsia, che ha preso le sue difese, verrà internata in un collegio. Perché il Paese Piccolo concede raro spazio all’idillio, l’estrema povertà favorisce l’asprezza dei rapporti umani, e non c’è redenzione da parte del mondo esterno che aggiunge guerre e sopraffazioni alle abituali calamità. Ma in quel faticoso e doloroso contesto tocca una particolare sfortuna a chi nasce donna. Lo rivela il prato delle Balenghe che si stende nei pressi del cimitero. Si racconta che là siano seppellite, senza croce e senza nome, le donne che secondo la comunità “avevano qualcosa di strano: albine, presèmpio, o gobbe o strabiche o mancine (…) oppure che soffrivano del morbo della malinconia”. Oppure che avevano nomea di stregoneria. Fenìsia sente di aver raccolto l’eredità delle “balenghe”, tanto più che dalla nonna Malvina ha appreso l’arte della guaritrice. Per loro, e per l’infelice Grisa, appresta la sua vendetta. Indossa la pelle e i denti aguzzi della donna lupa, coltivando “la certezza di essere transitata in questa lagrimarum valle per provare che è sempre possibile andare controcorrente”. E’ all’incirca la storia della Signora dei porci calata nel ventesimo secolo.
Laura Pariani delinea con robusta efficacia la vita della montagna, senza assolverla per la sua resistenza alle vane lusinghe della modernità. Il suo microcosmo offre soltanto lo sfondo più nitido di una dolorosa, conflittuale condizione umana. Confida in una nota di essersi documentata attingendo agli studiosi del folclore e alle testimonianze raccolte personalmente sul campo. Spiega anche, a evitare dubbi su possibili incongruenze, di avere innestato sull’italiano termini dialettali dell’alto Piemonte che risentono degli influssi della pianura lombarda e della vicina Svizzera. Al di là dell’assunto “femminista”, avverti che a sedurla è la scoperta di questa lingua mescidata, di una oralità generatrice di invenzioni, proverbi e leggende, del sentimento fascinoso di una vita “altra”.


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La Repubblica, 6 novembre 2011

 

La saggezza antica della donna dei lupi

di Loredana Lipperini

L'esperimento di Laura Pariani ricorda un libro assai lontano di Armanda Guiducci che si chiamava La donna non è gente e proponeva le testimonianze orali delle contadine sulla nascita, il matrimonio, la morte, raccontati dall'angolo oscuro di una femminilità esclusa. Il meccanismo de La valle delle donne lupo è simile: un registratore raccoglie le parole della vecchia Fenìsia, che vive sola nella casa che affaccia sul cimitero (perché è discendente di "sotterramorti") in una valle piemontese. Il romanzo coincide con il racconto di Fenìsia, nata nel 1928, una madre morta di tisi e una cugina amatissima, Grisa, che da piccola fuggì con i lupi. I grandi eventi (la guerra, i partigiani, la modernità) non sono che lo sfondo di una vita "balenga", diversa da quella concepita come normale dallo stesso universo femminile che perpetua la subordinazione sulle altre donne. La quattordicenne Grisa, che conosce proprio con Fenìsia il desiderio soddisfatto, viene chiusa all'Ospedale Psichiatrico, Fenìsia diviene "sanatrice" e custode delle poche gioie e dei molti orrori della valle, restituiti con una lingua dove il dialetto diviene parola poetica, omaggio a un mondo condannato.
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La Provincia di Como, 18 novembre 2011

 

Donne di dolori trasfigurate dalla scrittura
Storie vere di valligiane del Piemonte hanno ispirato il nuovo libro della Pariani

di Fulvio Panzeri

Stupisce sempre per la forza e la pietà che assumono le storie della gente più dimenticata di Laura Pariani. Ritorna infatti con un romanzo decisamente "forte" dal titolo assai accattivante, "La valle delle donne lupo", una valle che si trova in Piemonte, chiamata "prato delle Balenghe". E già questo termine, di usato molto anche nella parlata lombarda, sta ad indicare donne comunque diverse, un po' stralunate, per nulla allineate alla cosidetta ''normalità''. La protagonista è Fenìsia, che si racconta in alternanza con quello della ricercatrice che gira le valli facendo interviste con il registratore, dal giorno della sua nascita avvenuta nel novembre del 1928. E così conosciamo questa donna sola, in un piccolo paese, custode, fin dalla nascita, sempre di quel luogo vicino al cimitero, con i suoi che seppellivano i morti.
Ci racconta di sé e di un mondo che lentamente si trasforma e sembra perdere di senso sotto le spinte di un moderno che sembra alterare gli equilibri, visto che la sua storia arriva fino al 2007 e si fa portavoce di molte altre storie, di dolori e di soprusi, di figure di altre donne davvero particolari, che restano nella memoria. La madre Ghitin, la nonna, la cugina Grisa che, per essersi ribellata al padre violento ha la tragica punizione di essere rinchiusa in un manicomio, tornata a casa per la legge Basaglia. Un'altra storia della Pariani che affonda nel dolore delle donne, nella loro fatica a vivere, in una prospettiva come quella della valle che ne sottolinea ancora di più l'inquietudine.
La forza dei libri della Pariani è anche quella della continua ricerca di una voce e di uno stile che si connaturi alla storia, che ne diventi lo stesso motore:
accade anche in questo romanzo che si avvale della gran capacità che ha la Pariani di studiare il linguaggio e la parlata lombarda, in tutte le sue declinazioni, tanto da confrontarla qui con quella piemontese. Dice la scrittrice: «Quanto ai pochi termini propriamente valligiani che ho conservato, chi legge avrà forse più di una sorpresa, perché in questa zona dell' Alto Piemonte - Vallese a ovest e Ticino ad est - si parla una strana lingua che di piemontese non ha praticamente nulla, ma in compenso è ricca di termini venuti dalla pianura lombarda o dalle valli d'Oltralpe».
E c'è anche un ringraziamento che tiene a fare: «In questi anni ho seguito con attenzione il lavoro di Cesare Bermani che da una vita raccoglie testimonianze orali. L'ascolto delle sue registrazioni mi ha messo sulla strada di questo romanzo, accendendo dentro di me l'idea dell'intervistata e dell'intervistatrice».
Abbiamo questo racconto epico delle "donne lupo", che, secondo la Pariani, «affrontano a viso aperto il grave del mondo». Una donna lupo «che non sopporta la stoppa che rimpinza di gonfio il fantoccione cascante del quieto vivere. Ma non è solo questione di coraggio. E pure fame di storie, perché le donne lupo amano il momento in cui la luna col suo occhio aperto racconta storie che contengono verità». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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il manifesto, 5 gennaio 2012

 

Laura Pariani, memorie di strìe in Piemonte

di Laura Pugno

Nel romanzo La valle delle donne lupo, Laura Pariani ricrea, con i mezzi della fiction, ma attingendo anche a vicende personali, quelle esperienze di ricerche etnografiche che soprattutto negli anni Settanta ma ancora negli Ottanta hanno fortunatamente sottratto all'oblio esperienze e vissuti di tradizione orale negli angoli più sperduti d'Italia, consegnati a una povertà secolare, che la modernità sopraggiunta rischiava, rapidamente, di spazzare via.
Pariani mette in scena una ricercatrice milanese di oggi, un'intervistatrice di buona volontà, che armata del tradizionale registratore, si avventura in una valle dell' alto Piemonte, nell'abbandonato Paese Piccolo, per raccogliere le memorie dell'ultima anziana abitante: la Fenisia, che, figlia ed erede dei «sotterramorti» del Paese, abita alle soglie del cimitero di questo centro d'alta montagna ormai del tutto spopolato, senza temere la vicinanza con la morte che la lunga consuetudine di generazioni le fa apparire, appunto, familiare.
Non solo di becchini, tuttavia, è erede la Fenisia, in lei si concentra la sapienza di generazioni di donne esperte dell'uso di rimedi del bosco, di ribelli, di outsider, di «balenghe» e di «strie», maestre di erboristeria quando non di altre e più inquietanti sapienze, che atterriscono nella sua giovinezza le comari del Paese: «Tra una corona e l'altra, sussurrano alla ghiotta che quella stria della Malvina restò in vita a libito sua ... trattenne il respiro aspettando a morire finché non fosse tornata dal collegio la Fenisia, regina angelorum ora pro no bis, per istruirla nel fare la fisica e trasmetterle il comando, regina confessorum ora pro nobis. Su quest'ultimo punto del cosiddetto "comando" stanno a mantecarla alla grande: così infatti in valle si chiama la sapienza nella "fisica", ovverossia l'arte di sanare o uccidere con le erbe».
Sono queste, Malvina, Fenisia, le «donne lupo» che l'ortodossia cattolica e della comunità di paese ha da sempre emarginato e scacciato, quando non eliminato senza mezzi termini seppellendole in un prato nei pressi del villaggio, un cimitero sconsacrato e senza nomi che quasi diventa luogo di culto a rovescio: «Comunque mette uno sfriso di inquietudine traversare quel tratto di pendio, affrontare la fitta bruma che certe volte lo copre, sapendo che si tratta di un cimitero senza croci e senza nomi. La Fenisia sente fremere dentro di sé qualcosa che le arriva da lontano attraverso il sangue: la lunga catena di Balenghe che sono vissute nella valle, passandosi una dolorosa e sotterranea eredità d'umori e d'ombra da madre in figlia o da nonna - nipote. Quelle che non potranno difendersi. Quelle che nessuno piange. Quello che nessuno vuole ricordare. Quelle che non hanno nome».
Più di tutto, la tematica "lupesca" - che apparenta in qualche modo la «Valle» a un libro diversissimo come Nina dei lupi di Alessandro Bertante, uscito lo scorso febbraio per Marsilio - s'incarna nel personaggio della Grisa, l'amatissima, anche fisicamente, cugina di Fenisia, scappata di casa nel bosco a tre anni e lì sopravvissuta insieme a una cucciolata di lupi. Ribelle d'indole, finirà in manicomio, per poi uscirne solo ai tempi della legge Basaglia, e si dedicherà a costruire «macchine per fabbricare lupe», perché in fondo, scrive Pariani, «esistono solo due tipi di donne: quella che somiglia alla pecora smarrita nel fosso, folle di paura. O l'altra che è più vicina alla lupa» e che non teme di raccontare «la lupa verità».
La lingua fa da soglia per chi voglia entrare nella lettura di questo libro, contaminata da espressioni. e dialettalismi, come racconta l'autrice in notà, di uno strano idioma «che di piemontese non ha praticamente nulla», ma in compenso abbonda «di termini venuti dalla pianura lombarda o dalle valli d'oltralpe». È la lingua della Fenisia, che domina i capitoli dispari del romanzo, dove si dice la sua storia, ma finisce per contaminare anche i capitoli pari, in cui l'intervistatrice dovrebbe tirare le somme della vicenda narrata. Non è però la prima persona a imporsi, ma la terza, perché la Fenisia perde l'«io» in collegio, fino a rispondere al medico che la vede risvegli arsi da una forma di grave encefalite: «"Forse lei si chiama Fenisia". Come se la parola io non le appartenesse più», e si fa, in questo modo, anche nella carne, canale di trasmissione di quel noi femminile collettivo e perduto, anonimo e dolente, che è il vero protagonista di questo romanzo.
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La valle delle donne lupo (La vallée des femmes-loups), de Laura Pariani, Einaudi, 2011, 250 p.

Par Dominique Vittoz – septembre 2012

NB : Le titre donné par l’auteur dans un premier temps était Il prato delle balenghe, pas facile à traduire… ce pourrait être : Le pré des femmes rebelles (ou fantasques). Finalement l’éditeur italien a préféré le titre La Vallée des femmes-loups)

Il s'agit d'une plongée dans le passé (entre 1928 et 2007, avec un accent surtout sur les décennies 30 et 40), à travers les trois jours de conversation entre une écrivain milanaise (dont la présence est très discrète dans le livre, elle ne se manifeste que par quelques questions qui créent une mise en perspective temporelle), et une vieille femme, Fenísia, dernière habitante d'un hameau perché sur la montagne entre Piémont et Lombardie.
Cette femme a tout d'une irrégulière au sein de la petite communauté de montagnards où elle est née et a toujours vécu : fille et petite-fille des croque-morts du village, elle est orpheline tôt et grandit avec sa cousine Grisa, enfant lunatique et persécutée par un père tyrannique, qui finira par la faire interner vers 18 ans, brisant la relation entre les deux adolescentes qui avait pris des teintes amoureuses.
Fenìsia passe quatre ans dans un pensionnat religieux. De retour, elle vit avec sa grand-mère, Malvina, qui lui transmet son savoir de guérisseuse. Puis les années passant, cette indépendante farouche qui conteste (et pour cause) l'autorité masculine, sera de plus en plus isolée, à la fois crainte et respectée pour ses talents médicaux.
Entre-temps, elle aura connu un mariage qui se révèle vite une erreur et, sur le plan social, l'évolution de la psychiatrie qui permet l'ouverture des asiles psy et la libération de Grisa trente ans après son internement : Fenìsia la recueillera et pourra enfin la choyer dans leur vieille maison d'enfance.

Au gré de l’évocation de son long passé par Fenìsia, on rencontre une série de figures marquantes de son enfance, à travers lesquelles le lecteur découvre les modes de vie ruraux de l’époque (années 20), les relations entre les gens du villages et entre les générations, la place de la morale, du pouvoir, de l’école. On découvre ainsi Remigio le vieil anarchiste ou l’oncle Martino, le joueur d’accordéon qui part soldat et meurt dans les plaines glacées de l’Urss.

Le finale (une mort choisie) est d'une force théâtrale.

Mais, plus encore que l'histoire (fascinante par l'archaïsme tellurique et les liens constants entre légendes, mémoire paysanne, évolution affective et spirituelle de Fenísia) et sa dimension bellement féministe, c'est la façon de raconter qui captive. Le ton est donné par le récit de littérature orale que Fenísia dévide comme une fileuse de laine au bénéfice de l'écrivaine venue recueillir ses paroles d'un autre temps. Fenísia est pétrie de culture paysanne, et toutes ses phrases sont scandées par des proverbes (un véritable feu d'artifice !) qui ont pour fonction à la fois de dessiner en toile de fond la société montagnarde pauvre et dure où se déroule la jeunesse de Fenísia, et d'instaurer une distance critique avec ce même univers dans tout ce qu'il a d'injuste et de violent, en particulier à l'égard des femmes, de ces "balenghe", ces irrégulières qui au fil des générations se sont rebellées contre le pouvoir masculin.

C’est un livre d'une grande force qui lance un pont vers le passé pour récupérer des racines magico-paysannes qui ne sont - heureusement - pas si loin de nous en réalité (deux générations, au plus). Cet héritage aujourd’hui a de précieux qu’il est un puissant antidote à l’excès d’impersonnalité de nos sociétés urbaines devenues fades par standardisation.

 

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La valle delle donne lupo, Einaudi, Supercoralli, ottobre 2011