In
fabbrica e nelle scuole con giubbotti e rivoltelle
di
Luigi Cortesi
Separare
il fatto “Volante Rossa” dal mito della “Volante
Rossa” non è operazione facile. Perché
il fatto non fu un semplice episodio locale, ma il frutto
d'una condizione di disagio politico e sociale; e perché il mito ha
avuto radici persistenti e la capacità di esprimere un sentimento col-
lettivo.1n ogni caso, il fatto va descritto nei suoi dati reali e il
mito va ricondotto al suo terreno storico. Cesare Bermani aveva già
fatto questa operazione allorché pubblicò sulla rivista Primo
Maggio (aprile 1977) il saggio «La Volante Rossa (estate
1945-febbraio 1949)», una sostanziale anticipazione del libro ora
apparso (Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa. Prefazione
di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, pp. 160, L. 22mila) ;
ma il libro contiene arricchimenti e nuove testimonianze che lo rendono
in qualche modo il testo “definitivo” sull'argomento. Le
due date del saggio di vent'anni fa sono eloquenti. L’estate 1945
registra le prime delusioni per l'esito della Resistenza; non vi è
stato né un impossibile e non programmato “salto” rivoluzionario né
un deciso passaggio - questo sì possibile - alla democrazia non monca
e non zoppa sulla cui necessità il Cln dell'Alta Italia si
era chiaramente espresso: una democrazia in cui la società invadesse,
per così dire, la politica, e questa cominciasse un processo di
socializzazione. Ora invece la “politica” veniva dal “Regno del
Sud” bell'e fatta, con accordi e compromessi che avevano già
prestabilito proprio i limiti sociali del movimento di lotta iniziato
nel 1943. I flutti di quelle intese non erano però tutti visibili Le
aspettative erano ancora grandi e fortissimo il senso della vittoria
popolare e della crescita impetuosa d'una realtà proletaria che
rimetteva praticamente in discussione i termini del dominio
capitalistico. E'
significativo che tra le prime azioni punitive della Vr e l'inizio di
un' attività organizzata passino alcuni mesi; dopo la percezione della
fine della condizione insurrezionale non siamo più alla eliminazione
del nemico avvenuta con ritardo, ma in una situazione nuova e diversa
alla quale i "di zione del nemico avvenuta con
ritardo, ma in una situazione nuova e diversa alla quale i gruppi come
quello milanese non sanno dare altra risposta che quella delle armi II 1949 fu invece l’anno della
completa “restaurazione”, sancita da fatti incontrovertibili, in
fabbrica come nelle scuole e all'università, sul piano
internazionale come su quello interno. In questo scenario
-caratterizzato dalla reazione ma anche da grandi lotte operaie, dalla
bomba atomica ma anche dalle campagne per la pace - si colloca appunto,
a Milano e nel suburbio industriale, la vicenda della Vr. Che fu la
parabola di un gruppo di giovanissimi militanti della Resistenza e del
movimento operaio che intendevano punire, ma anche replicare ad atti di
intimidazione e provocazione d’un fascismo che riemergeva come
stampella della “continuità dello Stato” I partigiani non avevano
consegnato tutte le loro armi; e non solo i partigiani comunisti, ma
anche i sociali sti, gli azionisti, e perfino non pochi democristiani,
avessero o non combattuto contro il fascismo. L’offensiva
antiresistenziale era cominciata, si può dire, all'indomani della
liberazione, l'anticomunismo era propalato a caratteri cubitali dalla
buona stampa borghese; e appunto contro il “pericolo rosso” quei
democristiani erano pronti a scendere in campo, confortati da garanzie
internazionali e dai crismi vaticani. L’età media dei membri della Vr
è di meno di vent'anni, e vent'anni ha il loro comandante Giulio Paggio
(“Alvaro”), già della 118a Brigata Garibaldi, elettrotecnico
alla Innocenti di Lambrate. Costituitasi in gruppo -inizialmente di una
decina, poi di un massimo di alcune decine di componenti, con lo stesso
nome di un gruppo. attivo dal 1944 -la Vr organizza attività ricreative
di massa, ma esegue anche azioni armate talvolta più che avventate, tra
le quali alcuni omicidi. Ne sono vittime sia repubblichini rimasti impuniti - tra
questi, il 27 gennaio 1949, F. Ghisalberti, indicato come l'assassino di
EugenioCuriel- sia i neo-fascisti, ma anche qualche borghese non
fascista, come quel Massaza la cui uccisione il giorno stesso del
Ghisalberti fu causa dell'arresto di tutta la Vr, tranne che di coloro
(tra i quali “Alvaro”) che poterono rifugiarsi a Praga Di uno dei
principali implicati, Eligio Trincheri -condannato all'ergastolo e poi a
trent'anni di reclusione, e liberato dopo ventidue anni e sei mesi -
Bermani pubblica,in appendice una recentissima
importante testimonianza. Ma la Vr partecipò con funzioni
di mobilitazione e di sicurezza anche a manifestazioni di massa,
specialmente dopo l' espulsione delle sinistre dal governo, ed ebbe
perfino incarichi dalla Federazione milanese del pci. Sfilava in tenuta
paramilitare, svolse servizio d'ordine in circostanze importanti,
addirittura al VI congresso del partito, che si tiene a Milano nel
gennaio 1948. Qui si verifica un episodio
particolarmente interessante. A Togliatti un membro della Vr vorrebbe
far mettere la firma autografa sul tesserino del gruppo; ma il
segretario generale gli risponde, pressappoco: «Sulla tessera del
partito sì, ma qui no». Togliatti,
dunque, sapeva? E' certo che, se sapeva, tollerava senza incoraggiare.
Altrettanto certo è che Togliatti, in previsione di un drammatico testa
a testa alle elezioni del 18 aprile 1948, fu tratto da Secchia a porsi
il problema di una difesa del partito - vincitore o soccombente - da un
attacco militare che non sarebbe mancato e che poteva essere patrocinato
e appoggiato dagli americani, che a ciò erano perfettamente preparati.
II segretario del pci dunque sa e rimuove, e intanto non organizza
quella difesa; la sua strategia parlamentare ha più lunghe scadenze, il
suo concetto di egemonia può anche passare attraverso crisi e
sconfitte. Il Pci non è però ancora conquistato a questa ideologia;
semplicemente, la vive come “doppiezza” giustificata dal ruolo
dirigente di chi “sta a Roma”. Altri però fremono, ed è tra questi
che in sede locale si trova chi (si fece il nome di Giuseppe Alberganti)
è convinto che intanto un legame, sia pure simbolico, con i partigiani
armati sia bene mantenerlo. La “doppiezza” -sulla quale
insiste giustamente Giorgio Galli- lascia tra la linea ufficiale e la
tentazione delle armi un'intercapedine abbastanza larga perché i
compagni della VR vi possano ricavare una loro nicchia; del resto, essi
sono noti e popolari, sia in fabbrica sia fuori. E sono clandestini per
modo di dire: frequentano sedi politiche e associazioni partigiane;
hanno, oltre al loro tesserino distintivi e divise, queste ultime
consistenti in giubbotti di pelle nera della Air Force americana..
L’estetica della violenza e della pistola (la “girandola”) è
nello spirito dei tempi, e trova in “Alvaro & C.” una buona
accoglienza. Tutto finì per un omicidio di
troppo, privo di fini politici in qualche modo comprensibili e ormai
completamente al di qua del mutamento intervenuto negli obiettivi
possibili e nei metodi di lotta. Ai complessi problemi storico-politici
cui abbiamo fatto cenno Bermani non ha inteso dare risposte definitive,
ma, soprattutto, recare un contributo di ricerca. Maestro nell'uso delle
fonti orali e nell’elaborazione storica delle testimonianze, egli ci
ha dato quello che può considerarsi un piccolo classico sul nodo
antifascismo-lotta di classe. Un nodo che resta non facile intendere, e
sul quale la storiografia marxista avrà ancora riflessioni da fare e
parole da dire. (da
“Liberazione”, Roma, 12 gennaio 1967, p. 25) |