RECENSIONI |
Bandiera rossa non è un Partitodi Marco RevelliQuei funzionari dei partiti di sinistra o del sindacato che si sono affrettati a cancellare dal repertorio musicale che tradizionalmente accompagna i raduni di piazza Bandiera rossa, considerandola un simbolo impresentabile di quel “comunismo” testé inabissatosi, farebbero bene a leggersi la «Scheda 8» (dedicata appunto a «Le origini di “Bandiera rossa”») del libro di Cesare Bermani e Filippo Colombara, Cento anni di socialismo nel Novarese. Ci spiega che la canzone incriminata «unico inno della classe operaia che possa considerarsi come un vero canto popolare di tradizione orale», affonda in realtà la proprie radici in un sottofondo culturale e folklorico di lunghissima durata. Sicuramente precedente non solo alla costituzione della componente comunista del movimento operaio, ma alla stessa fondazione del partito socialista. La musica è formata da due diverse melodie, «assai diffuse nella pianura padana a livello popolare» fin dai decenni centrali dell’Ottocento, su cui erano cantati testi tipici delle feste matrimoniali o degli charivari di paese («Ciapa on sass, pica la porta / o bruta porca, ven giò da bass» per la strofa; «Ven chi Nineta sota l’ombrelin / Ven chi Nineta te darò un basin / Ven chi Nineta te darò un bel fior / Ven chi Nineta che farem l’amor», per il ritornello). Il testo politico trova la propria ascendenza, invece, in un inno repubblicano del periodo immediatamente successivo alla breccia di Porta Pia (quando fu usato per la prima volta il vessillo rosso), di cui restano tracce in un frammento ancora recentemente cantato presso Orta dal forte accento anticlericale («E la sciavata del Pio nono / giù giù dal trono, giù giù dal trono / E la sciavata del Pio nono / giù giù dal trono vogliam butà»). E se sarebbe dunque arrivata al socialismo attraverso i percorsi sotterranei della cultura popolare, le sue esperienze informali, i canali occulti attraverso cui si elabora l’identità collettiva delle classi sociali e delle comunità di paese. Gli stessi processi “tellurici”, radicati nel profondo dell’esperienza collettiva popolare, che presiedono all’elaborazione iconografica del movimento operaio delle origini. I quadri, le bandiere, l’arredo delle Leghe e delle Case del Popolo, i riti e le forme di propaganda: tutto parla di un sistema di valori che attinge a una tradizione ininterrotta che tiene insieme memoria del mestiere e pratica religiosa, forme della quotidianità profana e secolari esperienze del sacro. Straordinaria, a questo proposito, l’immagine che viene commentata nel primo saggio del volume, raffigurante il «Ricevimento di Andrea Costa all’altro mondo». L’«apostolo del socialismo» è accolto da un affabile Felice Cavallotti, il «bardo della democrazia», che ha alla sua destra un Carlo Marx dai connotati assai somiglianti a quelli di Giuseppe Verdi e dal ruolo assolutamente simile a quello che nell’iconografia sacra spetta a Dio (Cavallotti sarebbe il Cristo). Alle loro spella, a metà tra i due, leggermente sollevata una stella splendente (lo spirito santo?) che li soffonde di un’ampia aureola, e ai lati i volti di Mattini e Garibaldi, santi protettori. Allo stesso genere di «traduzione» dal campo religioso a quello politico (tanto contigui, nel territorio sommerso dell’immaginario collettivo, quanto contrapposti sul terreno dispiegato dei paradigmi ideologici), appartiene il «Credo» socialista, apparso su «Il Lavoratore» di Novara del 10 gennaio 1903, e così concepito: «Credo nel lavoro onnipotente, creatore di ogni bene sulla terra e nel lavoratore suo figliolo, il quale, concepito tra gli stenti e nato nelle miserie, patisce sotto il regime capitalistico, è crocifisso ogni giorno, muore nelle miniere e nelle fabbriche, sepolto senza onori. Credo nel socialismo, nel grande partito che combatte per esso, e nelle organizzazioni dei forti. Credo che dovrà cessare l’attuale ingiustizia; credo nella resurrezione del genere umano, in una vita avvenire di pace e di amore. Così sia». Sono solo alcuni degli infiniti materiali, brandelli di memoria, documenti di cui è costellato questo primo volume dedicato alle Origini. Elaborato sulle linee storiografiche che furono di Ernesto de Martino e di Gianni Bosio, essa mostra a pieno la potenzialità di una corrente politico-culturale che affermò sempre il modello della «storia sociale» (come storia dell’esperienza autonoma, prepolitica, materiale delle classi subalterne) in contrapposizione alla “storia totale” di stampo togliattiano (la storia costruita sul primato del «moderno principe», che fa del «partito», del suo «progetto politico» e delle sue relazioni nazionali e internazionali il centro assorbente e la condizione unica che può condurre il mondo del lavoro dalla passività della «natura» alla dignità della «storia». Da un approccio di questo tipo emerge il forte debito di esperienza e di valori che il movimento operaio «moderno» - quello cioè emerso con il «partito di massa» e la formazione dei grandi sindacati d’industria – ha assunto, fin dalla sua nascita, con il fittissimo tessuto associativo che l’ha preceduto (e che nella storiografia ufficiale del mutuo soccorso, delle leghe di resistenza, con gli originari tentativi di elaborazione di una qualche «autonomia» culturale e sociale del proletariato. E anche l’impoverimento culturale e sociale verificatosi con il passaggio al Novecento, e con la semplificazione organizzativa prodotta dal dominio della «forma-partito». Basta scorrere a questo proposito l’elenco dei giornali operai del Novarese tra il 1884 e il 1890: ben 9, dai titoli significativi («Spartaco», «Il risveglio operaio», «Il proletario», «L’aurora», «La fiaccola del Lago Maggiore», «Il cooperatore moderno»). Oppure considerare il fitto reticolo di Circoli (quasi uno per quartiere e per frazione), delle società di mestiere (decine, fra il 1872 e il 1892, dei muratori, dei carrettieri, dei vetrai, dei calzolai, dei tintori, dei reduci, del tiro a segno, dei capimastri…), del mutuo soccorso (nella sola val d’Ossola a fine secolo si contavano bel 15 società!), delle Leghe di resistenza, ognuna con i propri statuti, riti di iniziazione, simboli e ricorrenze. Era un mondo articolatissimo e radicatissimo, costituito «fuori» dallo Stato (anche se non necessariamente «contro» di esso), capace di elaborare appartenenza e cultura. Di «gestire» la propria socialità, senza sovrapporre alla eterogeneità della propria composizione schemi organizzativi astratti, semplificazioni burocratiche centralistiche; quando a Novara, nel 1901 si inaugurò la Camera del Lavoro, il corteo che sfilò nel pomeriggio, dopo la Conferenza inaugurale del mattino e prima del Banchetto sociale, era composta da bel 44 rappresentanze di leghe e Società con proprie bandiere («i vessilli del lavoro»), i propri costumi, le proprie identità forti. L’avere riproposto oggi questa memoria sociale è un merito dei socialisti novaresi, che hanno voluto celebrare così il centesimo anniversario della nascita del loro partito. Ripensarla e usarla per «andar oltre», per riscoprire in quell’esperienza modelli organizzativi, percorsi culturali, forma «della politica» diverse, e alternative a quelle prevalse con l’assunzione del monopolio della socialità da parte dei moderni partiti di massa, è invece una possibilità aperta per chi di questa politica, dell’attuale rapporto tra sistema di partiti e società, non ne può più. E all’autonomia del politico intenda tentare di contrapporre ancora, testardamente, una qualche forma di autonomia sociale. («l’Unità», Milano, 9 novembre 1992, pagina III dell’inserto “Libri”) |