Il
racconto magnetico di un'altra storia
Ascoltare,
raccogliere, elaborare, archiviare e diffondere le voci di cui è fatta
la storia di base del nostro paese. La lunga e complessa vicenda
dell'uso delle fonti orali in Italia dagli anni Trenta a oggi ripercorsa
in due volumi curati da Cesare Bermani per l'editore Odradek
di Sandro Portelli
A
metà degli anni `60, Cesare Bermani, militante comunista del novarese,
fu deferito agli organi di controllo del Partito perché per fare i
verbali delle riunioni usava il registratore e trascriveva tutto, dando
così una rappresentazione non edulcorata e burocratica della realtà
delle discussioni, dei conflitti, dei dibattiti in atto nel partito. A
proposito di quell'episodio, Gianni Bosio avrebbe commentato (con parole
che suonano molto attuali): «il movimento operaio, quando esprime
dirigenti preoccupati di esorcizzare il magnetofono dovrà farsi adulto
e avere la forza di esorcizzare i dirigenti». Nel 1976, Cesare Bermani
partecipa insieme a Sergio Bologna al primo congresso internazionale di
storia orale. Parla del rapporto fra fonti orali, soggettività,
autonomia operaia. A metà della sua relazione viene staccato l'audio.
Negli atti del convegno, di quella relazione non c'è traccia.
Nel
1979, Cesare Bermani partecipa, insieme a me, a un congresso
dell'Istituto Storico della Resistenza a Rimini, su storia locale e
storia nazionale. In quell'occasione, il tema delle fonti orali viene
affrontato con un approccio metodologico innovativo e trova un notevole
ascolto fra i partecipanti. Al termine del congresso, storici di
sinistra di cui non faccio i nomi perché li rispetto, dissero (è agli
atti) che gli «storici scalzi» e gli storici orali erano
oggettivamente collusi con le Brigate Rosse.
Non
racconto questi episodi per fare un esercizio di vittimismo per conto
terzi, quanto perché aiutano a capire il quieto ma rigoroso e
puntiglioso orgoglio con cui, nella lunga e dettagliata introduzione
(cinquecentodieci note!) ai due volumi della Introduzione
alle fonti orali
da lui curati (Odradek, 2001-2002), Cesare Bermani ripercorre la lunga e
complessa storia dell'uso delle fonti orali in Italia dagli anni `30 ad
oggi. Sono quarant'anni che Cesare Bermani raccoglie, elabora, archivia,
diffonde le voci di cui è fatta la storia di base del nostro paese, e
in tutto questo tempo nessuno è riuscito a esorcizzare né lui, né il
suo registratore. Anche se è una storia vissuta ai margini, con
ostacoli e difficoltà, senza risorse e senza ricompense, in un senso
molto reale, questa è una storia di successo.
I
due volumi raccolgono saggi di varia provenienza, che danno un quadro
delle metodologie, dei problemi, dei soggetti della storia orale in
Italia. Ma io credo che la cosa più importante sia l'introduzione: a
suo modo, infatti, costituisce una vera e propria storia della
soggettività politica della sinistra italiana, attraverso il rapporto
dei suoi intellettuali e delle sue organizzazioni con le voci dei
soggetti sociali di cui sono stati, o avrebbero dovuto essere, i
rappresentanti: la «tensione strutturale fra la soggettività sociale e
le sue organizzazioni», ma anche le diversità interne, la molteplicità,
la contraddittorietà del mondo popolare e proletario stesso, troppo
spesso azzerate nelle versioni ortodosse o ricondotte a unità
dall'alto.
Bermani
comincia, così, dagli anni `30, dalla storiografia dell'esilio
antifascista, come i libri sul fascismo di Angelo Tasca o sul movimento
operaio nel biellese di Aurelio Rigola: «ho raccolto delle
testimonianze», scriveva quest'ultimo, «dalla viva voce di uomini che
a quegli avvenimenti presero parte - metodo che mi è sempre parso
eccellente, in quanto serve a completare e controllare i documenti
scritti, sulla veridicità dei quali non sempre si può giurare.» E'
curioso come Rigola rovesciasse ante litteram l'accusa di scarsa
attendibilità in seguito rivolta alle fonti orali: sono i documenti
ufficiali, per lui, quello di cui si deve dubitare. Mezzo secolo dopo,
sarà questo anche l'atteggiamento degli storici russi del gruppo
Memorial, che cercheranno nelle fonti orali e nelle «testimonianze»
quelle verità che non credono di poter ricostruire sulla base di
archivi manipolati dal potere. E forse, per loro come per Rigola, conta
il fatto di operare in contesti dittatoriali, dove per definizione la
verità delle carte statali è messa in dubbio.
Però
conta anche, in Rigola come in Memorial, come in tanti di quelli che
hanno usato le fonti orali da allora in poi, la convinzione abbastanza
ingenua della verità di quella che chiamano «testimonianza» (un
termine che, proprio per questo, nel mio lavoro ho sempre cercato di
evitare). In effetti, uno dei fili che si possono seguire nella
ricostruzioni di Bermani è proprio la transizione dalla «testimonianza
orale» alla «storia orale», a mano a mano che cresce la
consapevolezza della complessità di queste fonti, della necessità di
dotarsi di strumenti autonomi per la raccolta (uno spartiacque,
ovviamente, è la comparsa del magnetofono), per l'interpretazione
(esemplare mi sembra in questo caso il saggio di Bruno Cartosio sui
problemi posti dalle interviste con i suoi stessi familiari; utile anche
lo sforzo di categorizzazione tra storia orale e folklore di Franco
Castelli), per l'archiviazione, la schedatura e l'uso (articolati nel
saggio di Alfredo Martini). Ma è decisivo anche il passaggio da un
ricorso occasionale, integrativo e generalmente piuttosto acritico delle
fonti orali (quello che è chiamato, appunto «uso delle fonti orali in
storiografia») a un lavoro che invece tematizza queste fonti proprio
per quello che specificamente possono dare anche, forse soprattutto,
attraverso i filtri del linguaggio, della memoria, dell'errore, una
modalità che in questo senso più propriamente chiameremmo «storia
orale» e che, mettendo al centro della riflessione la dimensione
dialogica e soggettiva delle fonti, ha posto l'esperienza italiana
all'avanguardia in ambito internazionale (Bermani chiude i due volumi
riproducendo un articolo del New York Times che parla proprio del ruolo
di punta della oral
history italiana
e del suo contributo di metodo).
In
effetti, i problemi metodologici si cominciano a porre piuttosto presto,
soprattutto nell'ambito della storiografia della resistenza. Come fa
notare Bermani, coloro che fin da subito dopo la liberazione si posero
il compito di fare la storia del movimento partigiano avevano davanti un
soggetto che non si prestava a una storia oggettivante, con una spinta
alla partecipazione e al protagonismo collettivo e dal basso; e per di
più, con una composizione sociale che sfuggiva alla documentazione
scritta: «questo tipo di storia è un tipo di storia nuova», scriveva
Romano Battaglia, «è un tipo di storia in cui il protagonista è il
popolo, non è la persona che sa scrivere, non è una persona che sa
fare una testimonianza scritta e organizzata logicamente [immagino che
voglia dire: secondo i requisiti della scrittura].» Oltre tutto, anche
qui c'è, per altre ragioni, un problema di credibilità dei documenti:
«Chi di noi ha scritto quei documenti», notava ancora Battaglia, «sa
che in essi non vi era tanto la preoccupazione di accertare la verità,
quanto uno scopo immediato, propagandistico, di lotta, per cui si
dicevano talune cose magari sottolineandole e se ne tacevano altre.»
Gli storici e i cronisti della resistenza si trovano dunque davanti a
problemi come le diverse versioni date dai narratori (che loro
continuano a chiamare testimoni), la tendenza di ciascun narratore a
porsi al centro della storia (logico, d'altronde: ognuno è protagonista
della sua autobiografia), la difficoltà di armonizzare i racconti dei
partigiani con l'immagine complessiva che si voleva dare della
resistenza,. E' significativo che uno dei libri importanti di quella
stagione, I
miei sette figli, attribuito a Papà Cervi e
presentato come un'autobiografia, sia definito da Bermani
sostanzialmente come «un romanzo». Sono tutte questioni che in quel
tempo appaiono come segni di una storia minore, ma che verranno poi
riprese e rielaborate, dagli anni `80 in poi, proprio come il contributo
specifico di una storia orale che pone al centro il lavoro di
elaborazione della memoria e le forme espressive della soggettività e
dell'immaginazione.
Soprattutto,
il problema di dare ascolto alle voci di base solleva il problema della
pluralità della cultura operaia. Su questo, Gianni Bosio si scontrerà
- già prima di cominciare a lavorare con le fonti orali - con
un'ortodossia storiografica che pretende di ricondurre la storia della
classe a storia delle organizzazioni e dei loro dirigenti, escludendone
le esperienze di minoranza, le correnti eretiche, le varianti locali e
svalutando radicalmente ogni forma di autonomia non controllata della
soggettività di base. E' l'intenzione di ascoltare queste voci e di
costruire con esse una storia comune che distingue negli anni `50 e `60
figure come Ernesto de Martino, Danilo Montaldi, Rocco Scotellaro, lo
stesso Nuto Revelli, ed esperienze come i Quaderni Rossi e soprattutto
l'Istituto Ernesto de Martino e il Nuovo Canzoniere Italiano, «il vero
grande volano dell'interesse per la cultura orale in Italia.»
Al
centro della trasformazione operata da de Martino, Bosio e da tutti i
ricercatori che a loro si richiamano stava la messa in discussione delle
barriere disciplinari fra storia da un lato, antropologia e folklore
dall'altro. Non era una semplice questione metodologica di
interdisciplinarità o accademica, ma il riconoscimento del fatto che la
storia e il folklore si occupavano infine dello stesso oggetto, e cioè
delle persone. Tenerli separati e incomunicanti equivaleva a tenere
fuori della storia i protagonisti delle culture popolari, che invece,
soprattutto attraverso i movimenti operai e contadini, nella storia
agivano in maniera determinante. Di qui allora l'attenzione alle loro
forme di comunicazione: l'oralità in tutte le sue dimensioni
(tradizionali e formalizzate, e non), e la musica. Sarà proprio uno
spettacolo musicale, Bella Ciao, a imporre all'attenzione di
tutti il fatto che la storia della guerra raccontata dai soldati nelle
loro canzoni era molto diversa da quella raccontata dai «signori
ufficiali.» E anticipando le forme contemporanee della multimedialità,
l'Istituto Ernesto de Martino proverà a raccontare la storia e a
documentare il presenta anche in forma sonora, con i long playing degli
Archivi Sonori.
Bermani
sostanzialmente sceglie di fermare la sua ricostruzione a questa fase,
concludendo con una documentata e preziosa rassegna dei centri e dei
gruppi che oggi producono storia orale in Italia. Gli eventi successivi
- l'incontro con la oral
history
inglese e americana, la crescita di un movimento internazionale in cui
la storia orale italiana svolge un ruolo significativo - sono
rappresentati soprattutto nei saggi che completano i due volumi (così,
per esempio, il rapporto fra fonti orali e storia delle donne, nel
saggio di Roberta Fossati), nella sterminata bibliografia desumibile
dalle note, e nel prezioso elenco di siti web di tutto il mondo che
chiude i due volumi.
(“Il
manifesto”, Roma, 17 ottobre 2002, p. 12) |