Alcune recenti vicende, dal tentativo del primo
processo di Priebke di mandarlo libero alla messa sotto accusa dei
partigiani di via Rasella da parte della procura romana, sembrano dar
ragione alla tesi dell 'ultimo lavoro di Cesare Bermani: Il nemico
interno, guerra civile e lotte di classe in Italia (1943- 1976),
uscito nelle edizioni Odradek (pp. 325, L. 30.000). L'Italia, ci dicono
quelle pagine appassionate, continua ben oltre il 1945 a essere teatro
di uno scontro tra fascismo e antifascismo; anzi, questo è il suo
connotato politico essenziale e invano si tenta di oscurarlo. E non solo
da destra.
Il filo di continuità che Bermani traccia, disegna da una parte la
vocazione fascista delle classe dirigenti, rientrata ma non mutata dopo
la seconda guerra mondiale, dall'altra un blocco sociale di ispirazione
proletaria e giovanile che vi risponde sollevandosi, non appena esso
tenta di passare all'atto. E' una guerra civile appena mascherata: in
mezzo stanno le formazioni politiche, partito comunista e sindacato
inclusi che, senza essere assimilabili alla destra fascistizzante,
finiscono tuttavia sempre per reprimere le potenzialità del movimento
antifascista, temendo di essere sorpassate e sopraffatte. Questa è la
posta politica del dibattito sulla Resistenza che si apre negli anni
'60, e vede opporsi il partito comunista alla storiografia
resistenziale. La Resistenza fu un atto di guerra degli italiani contro
lo straniero invasore, invece che un atto di guerra interna fra de-
mocratici e fascisti. Inizio di un lungo scontro che esplode
periodicamente in guerra civile.
Una guerra civile che viene da lontano. Non lo diceva già Piero
Calamadrei ne11952: "Dicono gli immemori che questa guerra civile
di cui i1 25 aprile 1945 segnò la fine sia cominciata 1'8 settembre de1
1943. Non è vero era cominciata assai prima ne11920, quando lo
squadrismo fascista scatenò il terrore contro i lavoratori inermi,
quando gli agrari e gli industriali armarono le bande di incendiari e
assassini che misero a ferro e fuoco l'Italia"? E non sottolineava
due anni dopo: "Quella del 25 aprile non fu soltanto vittoria
contro gli invasori di fuori , fu vittoria contro gli oppressori, gli
invasori di dentro"?
Ma Calamandrei pensava che il 1945 vi avesse messo fine. Invece no, e
ben lo sapeva il Pci di allora. Non scriveva nel 1951 il settimanaIe
comunista Emilia: "Ogni tentativo di fissare per la
Resistenza i limiti 1943-1945 non può essere stato che formulato dai
nemici della Liberazione" ?
E ne spostava l'inizio al Risorgimento -'48, '60, Fasci siciliani, fino
alla prima guerra mondiale -vedeva la continuazione dell'opposizione al
fascismo e nel corso della seconda guerra, e la prolungava fino alle
contemporanee lotte alle Reggiane e alla Breda. Storia nazionale,
formazione dell'Italia, vicenda della classe, antifascismo sono la
stessa cosa e uguale il nemico che periodicamente cerca di prendere il
sopravvento. Ne testimonia Fortini per il luglio de11960: "Ora è
venuto il momento di scendere a qualunque costo in piazza e di
affrontare con ogni mezzo (anche con le armi se le avessimo avute)
quello che si configurava senza ombra di dubbio come un colpo
fascista" .E ancora, non si tratta di questo nel 1962 a Milano,
quando una manifestazione in difesa di Cuba incontra le camionette della
polizia scatenate sui marciapiedi che spappolano contro una saracinesca
un ragazzo, Giovanni Ardizzone, alla cui memoria Bermani dedica appunto
il suo libro? Non sono questi i fatti di piazza Statuto, non è questa
la resistenza rossa dal 1967/68 in avanti, che non a caso si muove
aspramente copntro una resistenza "beatificata" anche dai
conservatori? Per tutti gli anni ’70 le stesse figure ricompariranno
negli scontri sanguinosi tra lo Stato con il volto della legge Reale e l’antifascismo
militante con i suoi morti.
Questo è il filo, tenacemente negato dai comunisti del partito e del
sindacato, soprattutto dal momento in cui essi puntano al compromesso
storico che avviene appunto sul terreno della comune difesa dello stato
e della santificazione delle comuni istituzioni. In nome dell'unità
nazionale si compie allora il tentativo di influire sugli studi storici
della Resistenza, per ridurla a una guerra di liberazione nazionale
contro l’invasore tedesco, nella quale lo scontro interno e di classe
non hanno Peso, quando pure non avrebbero costituito un diversivo. La
controversia si esplicita proprio sulla domanda: fu una guerra civile o
no? ! Il Pci, Pajetta per primo, si schiera per il no. Soltanto Pietro
Secchia continua, sia pure in un linguaggio attento a non farsi smentire
dalla direzione, a far cenno al nuovo antifascismo giovanile, come aveva
fatto cenno a quello partigiano dei Moscatelli e dei Frassati. Casus
belli diventa più tardi il volume di Claudio Pavone, che investe la
dilemattica morale di una guerra che fu anche fratricida. Ma la linea
del Pci, che per rilegittimarsi come forza nazionale fa della resistenza
un fatto esclusivamente nazionale, quindi unitario, quindi dal punto di
vista di classe identerminato, non è, a sua volta, alle spalle del
tentativo di conciliazione che paproderà all’indulgenza, per l’operazione
del Msi a Fiuggi e le conseguenti ricerche di "valori comuni"
fra tutti i giovani di allora e di adesso? Fra il riduzionismo di destra
di De Felice e la asepsi politica del Pds. La resistenza viene
mummificata.
Il libro di Bermani è appassionato e denso di testimonianze dirette.
Per lui, come già per Gianni Bosio, il popolo si caratterizza
socialmente – proletari, contadini, studenti – ma non è fatto di
gregari, bensi di individui che convengono in una lotta, delineando
storie personali, di rifiuto all'integrazione, di sacrificio, di
vendetta, rivolte di ordine morale, per lo più destinate a fungere da
concime per la storia che, certo, dopo di loro cambia ma li affoga in
una riscrittura impoverita. La Resistenza è tradita, come sarà
abbandonata e tradita la generazione degli anni '60 che ne riscopre
l'integrità. E della quale Bermani fa parte, anche lui fra i figli cui
non è stata tramandata una vera memoria, ma sono costretti a ritrovarla
sotto una lunga banalizzazione.
E come tale il suo lavoro è di grande interesse, ma forse più per
quello che potremmo chiamare l'uso simbolico della Resistenza al
fascismo che per darci una persuasiva interpretazione storica. Due mi
sembra siano i limiti della sua impostazione. Il primo sta nella
identificazione fra conflitto di classe e scontro fra apparati
repressivi dello stato e avanguardie di popolo, spontanea, che si erge a
fargli da diga. E' una scena semplificata fra soggetti tendenzialmente
invariati, costruita su immagine dello scontro fisico di piazza, mentre
il conflitto sociale produce un potente rimodellarsi dei suoi soggetti,
riformulando di continuo sia i modi del capitale sia le figure del
lavoro, sia le forme delle loro intermediazioni istituzionali. E infatti
le moderne classi dominanti, tentate dal fascismo, non riescono a
trovare in esso che uno stato di precarietà, e il blocco
anticapitalistico sta sempre assieme, più in qua e in più in là
dell'antifascismo.
Non si intenderebbe sennò, perche delle grandi potenze capitalistiche,
e non solo l'Unione Sovietica, si batterono a un certo punto contro la
Germania in una lotta mortale - a meno di credere con Bordiga che si sia
trattato di un mero scontro per la supremazia all 'interno dello stesso
sistema. Né si intende perche il capitale italiano, sviluppatosi con il
fascismo negli anni '30, prenda nel dopoguerra una strada diversa,
anticomunista sì, fascista no; e su questa base avviene la grande
crescita del paese. Perche fascista no? E' una domanda che occorre
farsi, specie quando si cita Gramsci, così come i moderati
anticomunisti dovrebbero chiedersi il perché della deriva non fascista
ma autoritaria che la mondializzazione porta con sé.
Ugualmente, bisogna chiedersi perché, se negli anni '50 e '60 e '70 la
lotta di classe è assai più evidente del binomio fascismo e
antifascismo, e coinvolge soggetti amplissimi e acculturati, questi non
sono in grado di esercitare un'egemonia durevole? Leonardo Paggi
risponderebbe che le ragioni stanno nella nuova funzione del consumo.
Certo, è una vicenda ricorrente del proletariato occidentale, incapace
di essere davvero "classe generale", ma quindi anche
impensabile come un corpo integro e dormiente che ogni tanto si ridesta
per poi perdere. Negli anni '60 e '70 abbiamo un po' tutti sacrificato
questa idea, che lascia senza risposta il perché della così scarsa
durata, e poi del cosi precipitoso ribaltamento della più grande
rivolta giovanile antisistema, come quella che nel 1968 abbiamo
conosciuto.
Seconda obiezione: Bermani insiste sulla natura della Resistenza come
movimento spontaneo di popolo, operai e studenti che salgono da soli in
montagna. Ma non è stato cosi. Chi ricorda l'estate de1 1943 e 1'8
settembre sa bene come il crollo del regime e il disorientamento, il
bisogno di fare, incontra delle strutture politiche e deboli ma tenaci
come Giustizia e libertà, una presenza socialista, un'ala cattolica,
perfino un frammento monarchico combattente e soprattutto i comunisti. I
quali vengono dal passato ma si formano nel presente, e quelli che si
formano non sono spediti da Mosca, sono la radice del "partito
nuovo" , nel quale affogherà ogni tentativo di perdurare anche
come setta cospirativa. Non per la sola opposizione tatticistica di
Togliatti; il recente libro di Maurizio Caprara sui rivoluzionari in
servizio permanente effettivo ( "Lavoro riservato",
Feltrinelli, 1997) indica il limite addirittura catastrofico dei seguaci
o degli amici di Secchia o Seniga. Neanche la crisi dell'unità
antifascista: cancella 1'esperienza effettiva del 1943/45 che
costituirà la differenza fra Pci e Pcf e sarà la base dell'egemonia
del primo, almeno finché durerà la transizione postbellica e il
fordismo ordinerà la produzione.
Infine, la tenacia con la quale Bermani tiene fermo che si è trattato
anche di una guerra civile, e ha ragione, lo induce spesso a
sottovalutare il quadro della seconda guerra mondiale, in cui soltanto
essa riesce ad esplodere. Nell'estate del 1943, all'8 settembre e nella
formazione della repubblica di Salò, per nessuno che avesse allora
vent'anni si pose la questione se il nemico principale fossero i
fascisti o i tedeschi, e se stessimo facendo una guerra civile o contro
lo straniero. I tedeschi non erano soldati di un altro paese, erano
nazisti, il Terzo Reich non era uno Stato che tentasse solo di
annettersi delle terre, proponeva il suo come ordine mondiale. I
repubblichini non erano l'esercito italiano, erano una coda dei
tedeschi. Se fu un dilemma battersi per la sconfitta del proprio paese,
non lo fu certo il battersi contro le milizie di Salò. La Rsi, non fu e
non ci apparve come pensano De Felice, Violante e paradossalmente sembra
pensare anche Bermani, un governo e un esercito temuti come tali; fu una
velleità funesta e risibile, in sott'ordine e crudele. Per le strade,
alle stazioni, nei giornali, vedevamo Kesserling, la Wehrmacht, le Ss e
le loro ronde, i loro profili, che comandavano, arrestavano,
deportavano. Loro erano il nemico, gli altri erano i servi. E ancora del
nazismo non sapevamo tutto. Sorprende la mia memoria la battuta, che
Bermani apprezza, dell'ufficiale italiano che racconta come non esitasse
a fucilare un fascista ma avrebbe rispettato come prigioniero un
tedesco, perché soltanto una guerra civile merita di essere fatta.
Rispettare il nazista, quello che faceva la guardia ai mucchi dei nostri
compagni fucilati per terra. Mi domando che cosa abbiamo trasmesso come
memoria. Nuto Revelli, nel suo "Il disperso di Marburgh", dice
quello che i tedeschi furono per noi, quel che fu quella guerra. Credo
che raramente un conflitto si sia presentato con caratteri
politico-ideologici così evidenti.
Per timore di cadere in un resistenzialismo patriottardo, Bermani
ingigantisce infine Salò e diminuisce la vendetta: fu, scrive, meno
pesante che in Francia. Mi domando se in questi casi le cifre contano.
Certo, in Francia la vendetta servì a un operazione che da noi, per
decenza, allora non fu nemmeno tentata, quella di considerare il
petainismo come un' esperienza secondaria, una parentesi estranea alla
storia del paese, come sostenne fino in fondo Mitterrand. Solo in questi
anni la Francia fa i conti con con se stessa, e quasi soltanto per la
persecuzione antisemita. Da noi quei conti non si chiudono, pesano come
una debolezza identitaria. In 20 anni un regime totalitario crea, più
che un consenso, una massa sterminata di quelli che Primo Levi chiama i
"grigi", i trascinati dalle cose; per cui la Resistenza fu
minoritaria ma non in un paese maggioritariamente fascista, come pensa
De Felice. Una gran parte della nostra società è stata e resta in
bilico, opportunista anche perché espropriata. Questo bisogna capire
per capire l'oggi.
Resta valida del discorso di Bermani la polemica contro il riduzionismo
comunista. Fu un disegno negli anni '70? Lo è adesso? Sicuramente lo fu
allora, anche se i comunisti occidentali cercavano, oltre che una
legittimazione politica, una meno rimproverabile specificità rispetto
all'Internazionale prima e all 'Urss poi, e non a torto. Non so se sia
un disegno adesso. Penso all'ostinazione con la quale un uomo come
Violante che non visse quella stagione, cerca di mettere di fronte, i
soggetti che si affrontarono fra il 1943 e il 1945 come due sia pure
opposti ideali, e al fatto che un uomo di Almirante sia diventato in
pochi anni uno dei principali costituenti. Ma qui conta soprattutto
l'89, l'introiezione da parte dei comunisti della tesi di Fukuyama sulla
fine della storia, che fa del loro passato un mero errore. Dopo la crisi
dell'Urss essi vivono come finite le loro ragioni e, con esse, il loro
nemico storico, il fascismo. Ma come dimenticare che in questo sono
stati preceduti da insospettabili antifascisti che Bermani chiama a
testimoni, come Norberto Bobbio e Vittorio Foa?
(da "Il Manifesto", Roma, 4 luglio 1997, pp. 4-59)