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Racconti quotidiani di una guerra di classe

di Gianfranco Porta

Quando nel 1971 uscì Pagine di guerriglia. L’esperienza dei garibaldini della Valsesia di Cesare Bermani (Milano, Sapere), l'accoglienza della critica fu piuttosto fredda.
La novità di una ricerca fondata in larga parte sulle testimonianze orali, lo spazio riservato dall'autore ai comportamenti spontanei, il suo rifiuto di ogni "beatificazione" della resistenza e l'impegno a far luce sulle sue "zone d'ombra" spiegano il silenzio della sinistra ufficiale e del mondo accademico. Per molti militanti, per una nuova leva di storici e ricercatori quel libro fu, invece, una scoperta, divenne un punto di riferimento.
La pubblicazione, a venticinque anni di distanza, del secondo volume di Pagine di guerriglia (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli "Cino Moscatelli", 1995, pp. XXXVII-299), cui un terzo, conclusivo, seguirà la prossima primavera, offre l'occasione per riprendere il discorso su un lavoro che non ha eguali nel panorama degli studi sulla Resistenza italiana. Bermani traccia un quadro del movimento partigiano in Valsesia attento alle storie individuali e alle esperienze collettive, alle vicende militari e alla vita quotidiana. L'intreccio di prospettive diverse - una visione dal basso, resa possibile dal recupero della soggettività dei protagonisti, ed una d'insieme - gli consente di realizzare un alto livello di iden- tificazione e, al tempo stesso, di mantenere il distacco critico necessario per cogliere difficoltà, contraddizioni e limiti del movimento resistenziale.

Giudizi rigorosi
Lo studioso novarese descrive la nascita dei primi nuclei partigiani all 'indomani dell'8 settembre, le azioni e i rastrellamenti, l'esperienza della "zona libera", le dinamiche spontanee e il lavoro di organizzazione teso a trasformare le "bande" in un esercito partigiano, i rapporti con la popolazione, le storie dei comandanti e commissari politici, di industriali e fascisti. Analizza lo spirito d’indipendenza delle formazioni, spesso recalcitranti alle direttive dei comandi, i pericoli connessi ad un’eccessiva autonomia, le forme di approvvigionamento e il sistema di assistenza sanitaria, i percorsi che portano ad entrare nella resistenza.
La narrazione, ora rapida e coinvolgente, ora rallentata nella puntigliosa descrizione di situazioni e vicende, evoca il ritmo incalzante delle azioni, l’atmosfera sospesa, come fuori del tempo, di certi momenti d’attesa. Anche gli aspetti più problematici della lotta resistenziale sonmo affrontati fuori da ogni visione manichea e tranquillizzante. Nel capitolo "giustizia partigiana e guerra di popolo", Bermani ricostruisce l’impegno dei comandi a definire criteri rigorosi di giudizio sia nei contronti dei fascisti, traditori e collaborazionisti che dei garibaldini e dei civili. E’ una ricerca difficile, che deve misurarsi con le asprezze di una guerra "senza netti confini", nella quale sono frequenti i passaggi di campo e il nemico non sempre è identificabile con sicurezza. Può così accadere che, "durante un rastrellamento partigiani che si fingono fascisti fermino delle collaboratrici partigiane che si dichiarino fasciste", e, nelle strette di una situazione di estremo pericolo, procedano alla loro "eliminazione"; che uomini vicini alla resistenza siano sottoposti a stringenti interrogatori o addirittura uccisi perché scambiati per nemici.

I tribunali speciali
Per impedire errori del genere, disciplinare le manifestazioni della guerra di classe e conservare corretti rapporti con la popolazione, nell'autunno del '44, vengono istituiti i tribunali speciali militari. Le condanne "esemplari" che essi emettono, particolarmente nei riguardi dei partigiani che hanno commesso abusi, assolvono ad un fondamentale compito "di comunicazione politica".
Anche nei confronti dei prigionieri si cercano di definire regole di comportamento che tengano conto delle responsabilità e delle circostanze della cattura. Mentre i "voltagabbana", le spie, i colpevoli di atrocità non hanno scampo, gli altri, quando è possibile, sono utilizzati per scambi o liberati. Ciò che più differenzia la giustizia partigiana da quella del nemico, "oltre le finalità politiche complessive", è l'impegno dei comandi a responsabilizzare reparti e singoli, a reprimere "con decisione qualsiasi forma di tortura". Questo non impedisce che "sporadici atti di sadismo continuino ugualmente a verificarsi" nelle formazioni partigiane.
Il momento di contraddizione più evidente tra vecchio e nuovo, tra istanze di liberazione e comportamenti tradizionali è costituito dalla partecipazione delle donne allo scontro in atto. Bermani sottolinea le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, il carattere volontario di un impegno, non condizionato dalla necessità di sottrarsi ai bandi di arruolamento della Rsi, l'importanza del lavoro svolto dalle staffette e dalle infermiere. La sua attenzione è però rivolta in modo particolare ad analizzare i prezzi aggiuntivi che la decisione di unirsi ai partigiani comporta per le donne.
Esse devono affrontare le resistenze della famiglia, i pregiudizi sociali, gli stessi comportamenti dei loro compagni di lotta. La presenza femminile in comunità di giovani uomini, se alimenta nuove forme di cameratismo, è spesso percepita come desdtabilizzante, foriera di disordine e di insidie.
Accade quindi che per "restaurare postumamente l’onore di due partigiani fucilati" si sposti "senza ritegno la responsabilità dell’accaduto sulla donna, addirittura ritenuta capace di accusare di violenza e di furto il proprio amato, mandandolo a moprte, pur di salvare le apparenze col marito o i genitori". Un caso estremo, certo, ma quanto mai rivelatore. Le donne si vedono assegnare compiti di cura, i ruoli tradizionali di cuoche o infermiere. Rarissimi sono i casi di partigiane combattenti. A nessuna si riconoscono funzioni di comando. La tendenza comunque è qualla a "restringere al minimo necessario" la presenza in formazione. Nel settembre 1944 i comandi giungeranno a vietare il reclutamento femminile di nuovi elementi.
Nonostante i tentativi di impostare i rapporti su basi nuove, diffuso resta lo stereotipo che vuole le donne o madri o puttane. Alle fasciste si attribuisce come un marchio d'infamia la colpa d'intrattenere relazioni sessuali con il nemico, nei riguardi delle partigiane si tengono comportamenti paternalistici che sono il prodotto dello stesso immaginario maschile. C'è una sorta di corrispondenza tra la dissolutezza attribuita alle ausiliarie della Rsi e la definizione di "vaccoche" coniata per molte ragazze che si uniscono ai partigiani. Il peso di una tradizione che assegna alla donna "per bene" lo spazio della casa e della famiglia, il timore di turbare un diffuso modo di sentire, inducono così ad assumere atteggiamenti perbenistici, a non valorizzare "gli embrioni di una nuova morale e i rapporti tra i sessi sviluppatisi nella vita partigiana".

Il tabù dello stupro
Le pagine più originali del lavoro di Bermani sono però quelle che rompono il silenzio sulla pratica dello stupro. Basandosi sulle testimonianze raccolte in anni recenti, egli riferisce i casi di prigioniere salvate perché avevano avuto rapporti sessuali con qualche comandante partigiano, di spie fasciste "già condannate a essere passate per le armi - che poco prima di essere uccise - sono state violentate", racconta l'esperienza della moglie di un collaboratore dei partigiani scambiata per una delatrice e "costretta ad avere rapporti con parecchi di loro", fa emergere dal silenzio episodi di raccapricciante violenza.
Le stesse "rapature" inflitte alle collaborazioniste vengono lette come una sorta di violazione simbolica, "una forma di stupro attenuato che puniva i rapporti - spesso puramente virtuali - che le donne (...) avevano avuto con uomini nemici". C'è da augurarsi che questa apertura di discorso agisca come incentivo a misurarsi, come già è avvenuto in altri paesi (si veda la relazione di Anette Warring, National identity, gender and sexuality; danish women and occupyng german forces , al Convegno "Donne guerra, resistenza nell'Europa occupata" tenuto a Milano lo scorso inverno), con violenze ed orrori che non sono, come si vorrebbe credere, prerogativa esclusiva del nemico o dell’occupante, di volta in volta fascista, nazista, serbo, ma lascito doloroso di tutte le guerre, non escluse quelle di liberazione.

Eroi di carta
In una ricerca a tutto campo anche i nomi di battaglia possono fornire "informazioni preziose sulle matrici 'cultuali'" e "sui meccanismi psicologici (...) che stanno alla base della lotta armata antifascista". E' però necessario, come ricorda Bermani, non limitarsi ad una "classificazione tipologica" e acquisire notizie sui motivi che hanno indotto alla scelta. Per i partigiani del raggruppamento divisioni "Garibaldi" della Valsesia-Cusio-Ossola-Verbano, fonte di ispirazione privilegiata, risultano essere, accanto ai nomi o soprannomi familiari, protagonisti di fumetti e di cartoons, personaggi di romanzi, opere liriche e films, campioni dello sport. Frequenti sono anche i nomi che richiamano le caratteristiche fisiche o l'età di chi li assume, che indicano luoghi di nascita o di provenienza dei partigiani. Scarsa è l'incidenza percentuale dei nomi ispirati a personaggi storici.
Di gran lunga prevalenti risultano, rispetto ai significati ideologico-politici, le valenze simbolico-scaramantiche. In molti casi i nomi di battaglia hanno una funzione "di esorcismo verbale" nei confronti della morte o esprimono "una esigenza di totale distruttività verso il nemico". Una conferma ulteriore della scarsa rilevanza di fattori idelogico-politici nella scelta di diventare partigiani, una decisione determinata, nella maggioranza dei casi, da un radicale rifiuto del fascismo maturato sulla base delle esperienze vissute, di motivazioni etiche ed esistenziali.

("Il Manifesto", Roma, n.80, 3 aprile 1996, pp. 28-29)

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