di
Paolo Mieli
Quindici
anni fa, nel 1983, in previsione del centenario che sarebbe caduto tre
anni dopo, la Daimler-Benz commissionò a un gruppo di storici
dell'impresa, Hans Pohl, Stephanie Habert e Beate Brueninghaus, una
ricostruzione della vita dello stabilimento tra il 1933 e il 1945, cioè
negli anni in cui fu al potere Adolf Hitler. Ne venne fuori la storia
tutta in positivo di un'industria il cui gruppo dirigente aveva tenuto a
distanza il regime nazista. E che, in fin dei conti, doveva solo a se
stessa lo straordinario sviluppo che aveva conosciuto in quei tredici
anni. Pohl, Habert e Brueninghaus dimenticarono però di menzionare un
"dettaglio" a quei tempi ancora poco esplorato: la
Daimler-Benz. come del resto tutti i grandi gruppi industriali tedeschi,
durante la seconda guerra mondiale aveva impiegato come manodopera gli
internati dei Lager. Di più: la Daimler-Benz nel 1944 toccò
addirittura un record arrivando a utilizzare "lavoratori
forzati" nella misura non indifferente di metà delle proprie
maestranze.
Quando nel 1987 Karl Heinz Roth e Michael Schmidt diedero alle stampe
uno studio che rivelava questo sfruttamento della forza lavoro
proveniente dai campi di concentramento, l'eco fu grande. Su Der
Spiegel lo storico Hans Mommsen (che nel decennio succcessivo
assieme a Manfred Grieger, avrebbe portato a compimento un grande
lavoro, analogo a quello di Roth e Schmidt, sulla
Volkswagen) fece a pezzi il lavoro degli storici commissionato dalla
Daimler-Benz. La quale Daimler-Benz si vide costretta a chiedere
pubblicamente scusa per la terribile gaffe. E a stanziare cospicui fondi
per nuovi studi che ristabilissero una volta per tutte la verità.
Questo episodio (e in modo indiretto anche questi fondi) è all'origine
di un nuovo filone di ricerca che, traendo spunti dagli studi sui
comportamenti operai di Timothy W. Mason e del già citato Roth, ha
fatto proseliti anche in Italia. Soprattutto in quel gruppo di
derivazione "operaista" - la corrente della nuova sinistra
fondata all'inizio degli Anni 60 da Raniero Panzieri con Quaderni
rossi, e poi alimentata via via da Vittorio Rieser, Romano
Alquati, Mario Tronti e Toni Negri - che si è raccolto tra gli Anni 70
e gli 80 attorno alla rivista di Sergio Bologna Primo maggio. Tra
loro Brunello Mantelli che nel 1992 pubblicò dalla Nuova Italia un
primo studio molto interessante, Camerati del lavoro, che aveva
come sottotitolo I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo
dell'Asse 1938-1943. E
adesso Cesare Bermani torna sullo stesso tema con un testo molto ricco e
impegnativo che sarà pubblicato a giorni dalla Bollati Boringhieri ed
è destinato a essere molto discusso: Al lavoro nella Germania di
Hitler, sottotitolo Racconti e memorie dell'emigrazione italiana
1937-1945.
Bermani, che ha poco più di sessant'anni, è appassionato da sempre di
storia orale: ha ricostruito le vicende partigiane in Valsesia, in
particolare delle formazioni che facevano capo a Cino Moscatelli, ha
raccolto testimonianze su testimonianze per il "Nuovo canzoniere
italiano" con Gianni Bosio e adesso è impegnato nell'Istituto
Ernesto De Martino. Il suo nuovo libro è tutt'altro che un collage di
racconti: porta alla luce, anzi, documenti inediti che, assieme a una
selezione di quelli già noti, formano l'intelaiatura del mosaico in cui
si andranno a inserire come tessere i resoconti orali. Ne viene fuori il
quadro di una massa salariata molto ma molto consistente (nel periodo
preso in esame circa mezzo milione di persone) che, a dispetto dei
furori dell'epoca, andò sviluppando un'ideologia operaia - l'ideologia
che Tronti una volta definì come quella di una "rude razza
pagana" che ha come imperativo il lavorare sempre di meno e
guadagnare sempre di più, un sentimento che in altre sedi è stato
salutato come di "sano egoismo operaio" - sostanzialmente poco
dissimile da quello che potremmo rinvenire nello stesso periodo in
fabbriche statunitensi. Nonostante una progressiva presa di coscienza
antifascista, la condizione di operaio o di salariato agricolo - con le
aspettative, le soddisfazioni e le delusioni che portava con sé -
faceva premio su tutto il resto. E le opportunità offerte da quel
mercato del lavoro, anche. Tutto questo malgrado che, ricordiamolo
ancora, l'analisi riguardi uno degli antri più bui in uno dei
momenti più drammatici della storia di questo secolo: la Germania
hitleriana alla vigilia e durante la seconda guerra mondiale.
"Sia chiaro che il nazismo resta una cosa terribile e non ho certo
intenzione di sminuire neanche di un milligrammo la portata di questo
orrore", afferma Bermani; "però, indagando sulla condizione
di quegli operai, ho scoperto che non è quella cosa totalizzante che
avevo in testa prima di accingermi a questo lavoro. Non corrisponde allo
stereotipo che ci è stato tramandato. E comunque quei salariati hanno
avuto un modo di fare i conti con la Germania diverso da quel che
comunemente si crede".
Ma perché lavoratori con nessuna simpatia per il nazismo andavano a
lavorare per il Reich hitleriano? Semplice: per quell'ideologia operaia
di cui s'è detto, per la certezza di un buon salario e di migliori
condizioni di lavoro. Possibile però che le terribili notizie
provenienti da Berlino non agissero in forma dissuasiva? Nemmeno alla
fine del 1939 dopo l'aggressione della Polonia e l'inizio della guerra?
Ecco la risposta di un sicuro antifascista, Gino Vermicelli (scomparso
pochi giorni fa), futuro comandante partigiano che all'epoca era un
giovanissimo emigrato in Francia, da dove pure partivano manovali
italiani alla volta della Germania: "I lavoratori francesi o
stranieri che si trovavano in una situazione di disoccupazione o di
occupazione insoddisfacente potevano venire allettati dalla campagna di
propaganda per andare in Germania e ci andavano tranquillamente. E anche
per i francesi patriottici e per gli antifascisti italiani questo fatto
non significava un tradimento visto che allora, qualunque occupazione tu
avessi avuto, lavoravi comunque per i tedeschi. Produrre per i tedeschi
in Francia o in Germania non aveva grande importanza dal punto di vista
della guerra… Avevi degli amici, un giorno non li vedevi più e ti
dicevano: "E' andato in Germania". Che tipi erano? Beh. gli
operai in quegli anni erano, in quanto proletari venditori di
forza-lavoro, costretti a diventare delle specie di soldati di ventura
operai".
Su questa definizione di Vermicelli ("soldati di ventura
operai") sono imperniate alcune delle più affascinanti pagine del
libro che, con le parole dello stesso Vermicelli, così mette a fuoco
questo genere di figure sociali: "I più coraggiosi.
intraprendenti. avventurosi di loro facevano scelte come quella di
emigrare in Germania. che non erano politiche o ideologiche, di solito
non gliene fregava granché di quello, ma invece dipendevano dal fatto
che loro avevano bisogno di guadagnare per far mangiare i loro, per
comprarsi un pezzo di terra, la casa, i mobili nuovi". Anche Dino
Alfieri, ambasciatore italiano a Berlino tra il maggio del '40 e il
settembre del '43, tratteggia un ritratto di questi "soldati di
ventura operai" che per certi versi si collega a quello di
Vermicelli: "La massa italiana non era certo tutta omogenea; si
mescolavano ad essa elementi non desiderabili, sfaccendati,
avventurieri, di cui gli organismi sindacali in Italia erano ben
contenti di liberarsi; gente indisciplinata sempre scontenta,
attaccabrighe che appena arrivata in Germania vendeva le scarpe e il
cappotto. effetti quasi introvabili e perciò ricercatissimi; ma ripeto,
la gran maggioranza era costituita da operai seri, onesti, laboriosi e
disciplinati, che con il loro contegno facevano onore all'ltalia".
Come che fosse, la Germania li emigrazioni apprezzava. Moltissimo. E
loro ricambiavano l'apprezzamento. Tant' è che quegli operai fecero la
scelta di andare a lavorare nel Paese di Hitler in
modi molto diversi da quelli dell'emigrazione tradizionale. Si vantavano
di andare a guadagnare da due a cinque volte quel che, se avessero
trovato un lavoro, avrebbero guadagnato in Italia. E il fascismo dava
una mano a far apparire il "treno operaio" che li portava in
terra straniera non più come quella sorta di carro bestiame che ai
primi del secolo aveva portato all'estero la generazione precedente
avendo tutta l'aria di trasportare dei disgraziati al supplizio. Bensì
come un "treno da grande viaggio internazionale" dove i
lavoratori, con la valigia al posto del sacco, si facevano simboli di un
nuovo e ben più onorevole modo di emigrare. "Tutta questa
messinscena, dietro la quale si aggirano interessi non sempre
limpidi", avverte Bermani, "ha innanzitutto lo scopo di convincere
l'alleato (tedesco, ndr) che l'Italia è cambiata rispetto a un non
lontano passato". Ma l'effetto è anche quello di fondare un nuovo
e più moderno modello di emigrazione che, pur senza ricordarne i
precedenti, verrà riutilizzato nel dopoguerra. E proprio per coloro che
partivano in direzione della terra tedesca.
Nella Germania degli Anni 30 dunque c'è lavoro. Sempre. Ci sono grandi
occasioni di guadagno. E
c'è la possibilità di acquisire status. Soprattutto per i più giovani
c' è poi il miraggio di lavorare in
una società tecnologicamente avanzata. Racconta l'autore che moltissimi
dei testimoni gli hanno parlato di questa attrattiva: "Ho riportato
l'impressione che sebbene qualcuno di loro si sia visto affidare
mansioni non proprie e quindi si sia sentito professionalmente
mortificato, i più apprezzassero anche la produzione di massa in cui
venivano immessi, dove bastava un breve periodo di formazione e
addestramento per lavorare bene e che prevedeva ritmi di lavoro vissuti da
tutti come non assillanti. Insomma questi lavoratori apprezzavano non
poco la minor fatica rispetto al lavoro che si lasciavano alle spalle,
perlopiù in piccole fabbriche basate sul supersfruttamento della
forza-lavoro". Altrettanti testimoni riferiscono come fosse
possibile guadagnare sempre
di più cambiando, illegalmente, lavoro e passando da quello agricolo,
assai meno remunerativo, a quello industriale. E raccontano altresì
della straordinaria libertà sessuale delle ragazze tedesche che li
faceva sentire come se stessero vivendo su un altro pianeta se
paragonata a quella, inesistente, delle loro coetanee italiane, Il che,
assieme a tutto il resto, dava a questi lavoratori l'impressione di aver
fatto un salto nella modernità.
Eppure, anche in quei giorni, ben prima cioè che tutto crollasse, era
possibile vedere cosa era davvero la Germania nazista, Il libro di
Bermani ha sul frontespizio una dedica "a Giovanni Pirelli, che per
primo mi parlò dei nostri lavoratori in Germania", E in un intero
capitolo tratta proprio della "presa di coscienza di Giovanni
Pirelli", Questi, erede della omonima dinastia industriale, nel
novembre del '41 fu distaccato alle dipendenze del ministero
dell'Interno presso la delegazione del commissariato per la
colonizzazione e le migrazioni interne con sede a Berlino presso
l'Ambasciata d'Italia, E, per tale lavoro, venne a contatto con gli
emigrati in Germania, In questo contesto Giovanni Pirelli maturò i
primi fermenti di avversione al nazismo, Così scriveva ai genitori nel
gennaio del' 42: "Tolta la civiltà meccanica, quindi collettiva, i
tedeschi di Hitler sono ancora ben simili ai germani di Tacito, sono
ancora dei barbari. Barbari. Guardiamo alla crudeltà dei loro metodi, a
cui credo e di cui ho avuto diverse prove tangibili (e assisto in questi
giorni a degli episodi rivoltanti nei riguardi degli ebrei)…". Il
giovane Pirelli dunque vide. E capì, Anche di
quel che stava capitando agli israeliti. Tanto che, sempre in quei primi
giorni del 1942, scrisse queste profetiche parole: "Ho sorriso
qualche mese fa, leggendo una frase di ChurchilI: "Se la Germania
dovesse vincere, l'Europa ritornerebbe alla barbarie del medioevo".
Oggi sorrido molto meno", Ma tra gli operai, a fronte di spinte e
motivazioni "di classe" del tipo di cui abbiamo parlato
poc'anzi ("Più soldi e meno lavoro"), i tempi della presa di
coscienza politica furono molto, molto più lenti.
Bermani si sofferma sulla circostanza che gran parte dei manovali
italiani dell'emigrazione che andavano
in Germania lo facevano, direttamente, a dispetto delle autorità
italiane che avrebbero voluto prima riaverli entro i nostri confini per
poi decidere dove destinarli. Ma, essendo questi lavoratori emigrati per
lo più renitenti alla leva o comunque non in buoni rapporti (talvolta
anche per motivi politici) con il Paese d'origine, preferivano fare da
sé. E il fatto che la Germania li accogliesse senza tanti problemi
provocò qualche dissapore tra i Paesi di Hitler e di Mussolini.
Dissapori e anche tensioni tra fascisti e nazisti in ordine agli
emigrati italiani in Germania ve ne furono molti. E capitò spesso che i
nostri lavoratori si schierassero con i nazisti contro i fascisti: ad
esempio tutte le volte, e sono molte, che fiduciari e capicampo aderenti
a organismi sindacali fascisti vengono individuati come scansafatiche o
corrotti. Contro questi connazionali con la "cimice"
(il distintivo del Partito nazionale fascista) talvolta scattano anche
pubbliche manifestazioni di protesta. Persino scioperi. E più il tempo
passa più al fascismo di Mussolini viene
attribuita la responsabilità di una crescente ostilità dei tedeschi
che provoca il peggioramento delle condizioni di vita dei nostri
connazionali. Al duce viene anche addebitato un numero sempre maggiore
di manifestazioni antiitaliane: dapprima per il nostro mancato ingresso
in guerra nel settembre del '39, poi a seguito del precipitare della
situazione militare in Grecia e in Africa settentrionale.
A questo proposito è molto interessante quel che viene fuori dal libro
di Bermani in materia di sviluppo di sentimenti ostili al fascismo e al
nazismo tra gli emigrati in Germania. Finché sullo sfondo ci fu il
patto che nei primi due anni di guerra legò la Germania di Hitler alla
Russia di Stalin, cioè tra l'estate del '39 e il giugno del '41, tra
gli operai regnava uno strano clima. "Può addirittura capitare -
racconta Bermani portando anche alcuni esempi -che si proponga come
capocampo un lavoratore di cui si sa che ha idee socialiste ma di cui si
conosce anche la lunga pratica del mondo del lavoro e che per questo dà
affidamento. Da altre testimonianze risulta che tra coloro che si recano
a lavorare in Germania c'è, a volte, chi si professa comunista o
socialista e, quando si fida, non ne fa mistero con i compagni di
lavoro". Ma nella seconda metà del' 41 le cose cominciano a
cambiare. Anche e soprattutto perche si capovolgono le sorti della
guerra. Per molto tempo però viene privilegiata l'ostilità contro i
fascisti a quella "contro i tedeschi". Per trovare
"almeno un'embrionale presa di coscienza antinazista" bisogna
aspettare i11943, arrivare alle bellissime pagine che riguardano i campi
di Baldesberg e Brandeburgo dov'erano i giovani con il contratto
d'apprendista per l’Arado Flugzeugwerke. Dopodiché le cose andarono
sempre "peggiorando man mano che si avvicinava la disfatta
tedesca" e nell'ultimo anno e mezzo di guerra cominciò a metter
radici un sentimento antinazista. Anche se, osserva Berrnani, a seguito
dell'8 settembre 1943 "i lavoratori italiani rimasti in Germania,
in genere, dopo un brevissimo periodo in cui subirono il contraccolpo
dell'uscita dell'Italia dal conflitto, continuarono sostanzialmente a
vivere come prima".
Così tra il settembre del '43 e gli inizi del' 45 di operai in Germania
se ne trasferirono ancora decine di migliaia, quasi centomila, di cui
molti "volontari". Dai loro racconti si scopre che all'origine
di questa "volontà" non c'è nient'altro che "una
"scelta" tra quello che valutavano "peggio" e quello
che valutavano "meno peggio"". Cioè, come nei dieci anni
precedenti, nessun sentimento di adesione alla Germania hitleriana.
Laddove però, per quei non pochi operai che si trasferirono in terra
tedesca pur senza essere in condizioni di cattività, la circostanza che
si trattasse di prestare la loro opera alle officine germaniche non fece
in alcun modo da remora. Neanche negli ultimi giorni della guerra quando
erano ormai evidenti a tutti le fattezze del mostro nazista.
(da "la
Stampa", Torino, n. 174, 27 giugno 1998)