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Dagli anni ’60 alle Posse

di Sandro Portelli

 

Una sera, verso la fine degli anni Cinquanta, un ragazzo della periferia milanese, a cui piaceva ballare il rock e che faceva l'operaio in una fabbrica elettromeccanica, fu invitato a far sentire a certi signori certe ballate che aveva composto a mente. «C'erano Roberto Leydi, Gianni Bosio e Umberto Eco. Io mi vergognavo, non volevo cantarle: "Sono robe strane". Poi mi sono nascosto dietro a un angolo dove c'era un pianoforte e ho cantato come un fatto libe- ratorio queste Ballate della grande e la piccola violenza» , la grande violenza del fascismo in- trecciata alla violenza personale-politica della storia familiare. Poi esce dall'angolo, «e loro hanno cominciato a discutere. Ricordo soltanto la prima affermazione perentoria di Roberto Leydi sul senso di quei miei materiali: "Questa è una tipica produzione anarco-sindacalista". E quella di Umberto Eco: "Siamo di fronte a un archetipo". Gianni Bosio invece stette zitto».

Questa storia è raccolta da Cesare Bermani in Una storia cantata, ricostruzione dall'interno della vicenda del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto De Martino (Istituto Eme- sto De Martino/Jaca Book, 1997 , pp. 203, L. 24.000). Sono passati quasi quarant'anni e l'«archetipo» canta ancora, con la stessa vena «anarco-sindacalista», libertaria, romantica, appassionata. L 'unico a non dare etichette quella sera, Gianni Bosio, aveva riconosciuto in quel ragazzo che si chiamava Ivan Della Mea i segni della rinascita del canto sociale negli anni '60 e '70, una conferma del progetto da cui sarebbero nati il Nuovo Canzoniere e l'Istituto De Martino. E adesso, quasi contemporaneamente al libro di Bermani esce, prodotto da il manifesto, il nuovo cd di Ivan Della Mea, Ho male all'orologio.

 

Renitente al capitale

Da allora, Ivan Della Mea ha imparato a suonare la chitarra in modo un po' più credibile, ha trovato eccellenti musicisti (il fantastico Paolo Ciarchi, il sempre bravissimo Daniele Sepe, e altri) che lo sorreggono con arrangiamenti non banali ma non ingombranti, e una produzione sonora un po' meno rudimentale di quella del suo primo disco, l’ormai mitico Io so che un giorno. Ma non è cambiata la sua sostanza di renitente all'adattamento, alla quotidianità alienata del capitale.

Allora, cantava «viva la vita pagata a rate, con la seicento, la lavatrice»; oggi «guardiamo il senso dei nuovi valori... il posto la lira un vocabolario le cose sicure la casa sicura». E se allora la follia era la risposta liberatoria, oggi invita: di tutto questo, «ridiamo, amore, ridiamo». Ma la capacità di sentirsi folli, di rispondere ridendo, è sorretta da simboli antichi -il «rosso fiore» che si chiama ancora comunismo, la ragazza «Anna» che vuoldire anarchia. E chiude sulle note in minore di un Internazionale riscritta in versi fieri, dolenti e fiduciosi, da Franco Fortini.

C'è anche Franco Fortini all'origine di questa storia: il gruppo torinese di Cantacronache, dove lui, Italo Calvino, Sergio Liberovici, Michele Luciano Straniero, Emilio Jona, Fausto Amodei, cercavano di ridare un senso alle parole e alla musica di tutti i giorni, e dialogavano con la riscoperta della tradizione musicale popolare.

Contemporaneamente, a Milano, Gianni Bosio e Roberto Leydi (e poi Bermani, Franco Coggiola e Giovanna Marini, Gualtiero Bertelli, Alfredo Bandelli, e altri ancora) si venivano rendendo conto del fatto che la musica popolare e la storia orale potevano essere vie d'accesso a un'espressione culturale specifica del mondo popolare, segno di resistenza e alterità passate e possibile matrice di cultura nuova da creare.

Da questo incontro e da altri (per esempio, Darlo Fo) e da interminabili discussioni, conflitti, scissioni (con quello che un tempo si sarebbe chiamato sano settarismo, Bermani intitola un capitolo «Le scissioni furono produttive perché seriamente motivate» ) vennero fuori spettacoli e dischi come Bella Ciao e Ci rogiono e canto,  canzoni come Contessa, O cara moglie, Nina, Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini, riviste come I giorni cantati.

Soprattutto, vennero fuori organizzazioni autogestite e autofinanziate, indipendenti dalle forze politiche organizzate ma intrinseche ai movimenti, come il Nuovo Canzoniere Italiano per gli spettacoli, i Dischi del Sole per la discografia, l'Istituto Emesto De Martino per la ricerca -istituzioni culturali indipendenti, patrimonio della sinistra, capaci di durare un terzo di secolo e di essere attive e produttive ancora oggi nonostante infinite, ricorrenti crisi (io ne conosco un'altra sola che gli somiglia: il manifesto).

I Dischi del Sole hanno prodotto oltre duecento dischi (in buona parte oggi nuovamente in catalogo), il Nuovo Canzoniere ha fatto almeno diecimila spettacoli (cinquecento l'anno fra il '73 e il '77), l'Istituto De Martino ha accumulato una nastroteca di cinquemila nastri per diecimila ore di ascolto.

Ma Bermani non ne colloca la vicenda nella storia della musica, dell'etnologia, o delle comunicazioni, dove pure qualcosa contano, bensì laddove i suoi protagonisti hanno sempre voluto che stessero: nella storia del movimento operaio. «Il Nuovo Canzoniere è parte dell'operaismo italiano», si intitola un capitolo (non a caso, coabitava con Quaderni Rossi); ma già metterci dentro il Nuovo Canzoniere dà dell'operaismo un'immagine un poco più ar ticolata degli stereotipi riduttivi cui siamo abituati.

La musica e la storia orale infatti servivano soprattutto a ricostruire le trasformazioni della società italiana, dall 'universo agricolo e pastorale alla città industriale e, oggi, postindustriale (il principale progetto di ricerca del De Martino, nella sua sede di Sesto Fiorentino, è un'inchiesta sulle trasformazioni del lavoro e il loro impatto sulle soggettività).

Non è un caso che quando, all'inizio degli anni '70, il folk revival sembra trovare un pubblico di massa ma servire sempre meno a questo tipo di analisi, Gianni Bosio arrivasse a proporre che si lasciasse la musica a altri.

Quando Giovanna Marini, musicista coltissima, arrivò al gruppo, fu sconvolta -positivamente - dal fatto che si trattava di persone praticamente digiune di musica (Roberto Leydi si allontanò ben presto) che tuttavia raccoglievano e producevano musica, e che di musica discutevano accanitamente.

Bermani ricostruisce in modo partecipe ma equilibrato il dibattito sul cosiddetto «specifico stilistico», cioè sulla misura in cui la riproposta dei materiali popolari dovesse attenersi filologicamente alle modalità degli esecutori tradizionali o potesse essere matrice anche di innovazione.

 

Contesse e mondine

Tutte le posizioni in gioco, viste a distanza di tempo, hanno un dato in comune: la consapevolezza del fatto che lo stile era una questione politica, che riguardava la rappresentazione, la percezione, l’organizzazione del conflitto di classe.la specifica innovazione indotta dal Nuovo Canzoniere era, in questo contesto, il rifiuto di limitare la ricerca e la riproposta ai materiali popolari del mondo rurale o delle stagini dell’artigianato urbano, per estendere invece la ricerca alle espressioni musicali, linguistiche, narrative e organizzative del mondo popolare urbano. Musicalmente, questo significava cercare continuamente le problematiche relazioni fra le mondariso e Pasolo Pietrangeli, fra i canti religiosi abruzzesi e Ivan della Mea. 

Ma significava anche riconoscere una storia del canto sociale che va dall 'innodia del risorgimento alle lotte per le otto ore, dalla resistenza ai conflitti di fabbrica del dopoguerra, dai movimenti giovanili degli anni Sessanta al rap e alle posse che -lo sappiano o no, gliene importi o no (ma spesso lo sanno e gliene importa) sono oggi espressione di quella stessa storia.

Perciò, come ha messo bene in rilievo un recente convegno sul canto sociale che l'Istituto De Martino ha organizzato a Sesto Fiorentino, la questione dello stile, dell'apparato critico, delle modalità di comunicazione è ancora centrale, e non tollera (come ha messo in evidenza anche su il manifesto Cesare Bermani) improvvisazioni e banalizzazioni che cancellano la complessità della storia sociale di cui questa musica è prodotto. Non è questione di filologia: non c'è e non vuol esserci niente di filologico nel cd di Ivan Della Mea. Ma le stratificazioni della storia musicale delle opposizioni italiane ci sono tutte, echi del melodramma alle sonorità urbane.

Come sempre nella vicenda narrata da Bermani e cantata da Della Mea, questi strati di meoria non sono peso di passato ma apertura sul futuro. «Perché amo l’amore, perché ancora ho memoria per capire la storia», canta della Mea rivolgendosi a Bompressi, Pietrostefani e Sofri, «io non voglio azzerato neanche un solo momento…Ci si rivedrà: questa lotta è tutta da fare con voi e con chi non vuol farsi morire».

 

(«Il manifesto», Roma, 26 luglio 1997, p. 27)

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